Dopo mesi in cui le agende strabordanti di impegni hanno impedito di infilare anche un mini aperitivo insieme, finalmente i leader del centrodestra si sono rivisti a pranzo. Ma tanta attesa non ha partorito un riavvicinamento reale. Tra Berlusconi e Salvini da una parte e Giorgia Meloni dall’altra le distanze restano. L’accordo sulle candidature manca in 5 città su 26: il 20%, non proprio un’inezia. E soprattutto manca ancora il nome unitario per la Sicilia, l’unica regione ad andare al voto quest’anno (in autunno).
Che i contrasti interni siano più profondi di quanto lasciano intendere i numeri, lo dicono le dichiarazioni all’uscita dal pranzo di Arcore. Secondo il fondatore di Forza Italia, padrone di casa, la coalizione è più salda che mai: “Solo un pazzo potrebbe pensare di romperla”. Di tutt’altro avviso una nota di Fratelli d’Italia: “L’unita va costruita nei fatti, non con fumose regole di ingaggio su liste e programmi”. Una frenata alla quale il Cavaliere ha reagito “con sorpresa e irritazione”, fanno sapere da ambienti azzurri. Il leader leghista veste invece, come di recente gli capita sempre più spesso, i panni del paciere: “Il centrodestra deve restare unito perché le divisioni aiutano gli avversari”.
Le divisioni comunque permangono. Lo scoglio principale sembra essere il rapporto con Fratelli d’Italia. Ormai è chiaro che per la Meloni l’unità esiste soltanto se gli altri due partiti convergono su candidati FdI: se si osa discutere (come per esempio accade per la Sicilia) l’unità traballa. E se invece il suo partito tenta qualche fuga in avanti, o di lato, sono gli altri a infrangere la compattezza della coalizione. Lo si è visto durante le prime votazioni per il Quirinale, quando Giorgia Meloni, dopo un intervento molto simile a un comizio politico, se ne uscì con le sue candidature di bandiera (Guido Crosetto e Carlo Nordio), destinate comunque a finire male al pari della Casellati. Ma alla leader della destra interessa la battaglia identitaria più che quella vincente. Prima ancora che per il Colle, era già accaduto per due regioni, Puglia e Campania: FdI impose Raffaele Fitto e cha cercato fino all’ultimo di indebolire Catello Maresca. Insomma, l’unità che vuole la Meloni (sussurrano da Forza Italia) è solo quella che decide lei sui suoi candidati.
Berlusconi invece sta stringendo con la Lega. Ed è sorprendente, se si pensa che i suo vecchi uomini-ombra, come Confalonieri e Gianni Letta, odiano il Carroccio. Ma il Cav si è reso conto che Salvini, pur tra tante incomprensioni, è un alleato più affidabile, che fa quanto promette. Da questo punto di vista, le strategie per il Colle hanno tolto gli alibi a tutti: Salvini è stato lineare, ha tentato di fare il “kingmaker” del centrodestra e di fronte all’impossibilità di allargare il campo, ha accettato di convergere su Mattarella. La Meloni invece ha giocato la sua partita da partito di opposizione e ha preferito la legittimazione di Letta (Enrico, Pd) e dei grandi media pur di arrivare a palazzo Chigi.
Anche il ribaltone nel partito in Lombardia, l’avvicendamento Salini-Ronzulli (la quale si è definita “un soldato nelle mani di Silvio”), premia la linea di chi vuole portare Forza Italia verso un accordo stabile con la Lega piuttosto che verso una coalizione di centrosinistra come vorrebbero i cosiddetti “governisti” del partito, in primis Gelmini e Brunetta. L’unità del centrodestra dunque resta ancora un obiettivo problematico.
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