Da qualche giorno Mario Draghi è un po’ nervoso. All’apparenza vince sempre l’inappuntabile aplomb da (ex) banchiere d’altissimo livello, ma sotto sotto qualcosa turba la tranquillità del premier. I retroscena del palazzo dicono che sia stato lui in persona a costringere Bruno Tabacci a fare marcia indietro sulle deleghe aerospaziali dopo aver piazzato il figlio a Leonardo, e Renato Brunetta a privarsi della collaborazione comunicativa di Renato Farina. Con tutti i problemi che ha l’Italia oggi, Draghi deve intervenire per faccende del genere?



Il vero guaio del premier, che lo rende ipersensibile, è che l’apertura del semestre bianco gli ha tolto uno degli scudi che lo proteggevano dagli attacchi. L’argomento “o me o il voto” ora non regge più, perché il capo dello Stato ha perso il potere di sciogliere le Camere e indire il voto anticipato. E così certe lacune nell’operato dell’esecutivo appaiono per quello che sono: incidenti di percorso passati sotto silenzio. Le incertezze sulla gestione degli sbarchi. Le contraddizioni del decreto sul green pass. Oppure la tirata d’orecchi impartita dal Quirinale a fine luglio, quando il capo dello Stato ha scritto ai presidenti delle Camere e allo stesso premier chiedendo di “riconsiderare le modalità di esercizio della decretazione d’urgenza” in quanto i decreti legge sono troppi e troppo carichi di norme aggiuntive non urgenti che “appaiono del tutto estranee, per finalità e materia, all’oggetto del provvedimento”. Quando rimproveri analoghi toccarono altri presidenti del Consiglio, giornali e tv investirono di critiche il premier di turno: con l’attuale tutto ciò non è accaduto.



Ma questo non vuol dire che Draghi non abbia colto il segnale arrivato dal Colle. Il capo del governo sa di essere in ritardo sulla tabella di marcia, che le estenuanti mediazioni sulla riforma Cartabia lo hanno costretto a lasciare indietro alcuni dossier e a infilare provvedimenti eterogenei nei decreti legge “omnibus” che fanno storcere il naso dalle parti del Quirinale. Così va letta l’apertura di Draghi al reddito di cittadinanza, in contrasto con quanto egli disse inaugurando lo scorso Meeting di Rimini, quando parlò di lotta al “debito cattivo”, cioè improduttivo. Ora invece egli dice di condividere “appieno” il principio che sta alla base del sussidio. Un’apertura che svela l’esistenza di un canale di comunicazione con i 5 Stelle che si credeva sbarrato, dettato dalla necessità di non relegare il Movimento al semplice ruolo di portatore d’acqua al governo, ma di coinvolgerlo maggiormente per resistere nelle bufere.



La pacca sulle spalle del M5s va di pari passo con la scelta di Goffredo Bettini, ideologo del vecchio governo giallorosso, di andare a firmare i referendum sulla giustizia. Uno degli strateghi del Pd, partito diventato con gli anni giustizialista per non farsi sottrarre troppo terreno dal M5s, si mostra garantista a tutto tondo. E crea ulteriori difficoltà al segretario Enrico Letta, uno così giustizialista da non opporsi, nel 2013, alla scelta del segretario Matteo Renzi di votare per la decadenza di Silvio Berlusconi dal Senato. L’ala sinistra del governo mostra dunque continue fibrillazioni. E il nervoso Draghi ne patisce le conseguenze.

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