Non ne può più Giuseppe Conte. Non ne può più di Salvini ma nemmeno di Di Maio. E forse pure di Grillo. Ha nuovi amici ormai: da Mattarella a Juncker.

“Da quando ha stravinto le elezioni il leghista vomita misure indigeribili per i 5 Stelle, in modo da spingerli ad aprire la crisi o per umiliarli e annientarli del tutto”, è la tesi degli anti-salviniani presenti a Palazzo Chigi. Conte fa la voce grossa perché gliel’ha chiesto Di Maio. I 5 Stelle così sperano di fermare Matteo. Anzi, sperano che dopo l’ultimatum di Conte sia la Lega a far cadere il governo. Il gioco delle parti: vince chi riesce a farsi passare per vittima. Conte è costretto a ribadire “il premier sono io” e, lunedì, annuncia di voler “parlare agli italiani” per far sapere se resterà o no alla guida del governo gialloverde, dopo aver parlato con i due vice. Il premier è come sospeso (“congelato”, dicono al Quirinale), in attesa che Di Maio e Salvini si affrontino.



Promesse indubbiamente realizzate, due: il reddito di cittadinanza, fortemente voluto dai 5 Stelle, e quota 100, imposta da Salvini. Il quale ha chiesto e ottenuto anche il decreto sicurezza (ora reclama pure quello bis) e la legge sulla legittima difesa, mentre i 5 Stelle hanno voluto la riforma della prescrizione e le riforme costituzionali.



Promesse non mantenute: la Tav (ancora come sospesa), la Tap, l’Ilva di Taranto, ma anche lo sblocca cantieri (ancora all’esame delle Camere), il decreto crescita (idem), il salva Roma (la Lega si oppone) e lo stop ai condoni.

Conte ha avuto un’idea. Costringere allo stallo i Dioscuri e proclamarsi il solo capace di farsi realizzatore. Come dire: ognuno di voi porta avanti le sue battaglie, io invece faccio gli interessi della nazione.

Siamo tornati ai tempi della antica Roma: i due consoli evolvono in un triumvirato. E tra i due litiganti il terzo (Conte) gode. Conte non è più il mansueto agnello degli inizi: anche per lui il dado è tratto.