L’altro giorno Mario Draghi ha messo la firma su due importanti riforme: il sistema di governo del Recovery Plan e il decreto Semplificazioni. Giorni prima aveva dato il via all’infornata di nomine insediando uomini di sua fiducia alla Cassa depositi e prestiti e alle Ferrovie in sostituzione di dirigenti in quota 5 Stelle. Scelte decise e mirate che gonfiano le vele del premier dopo quelle di due mesi fa che – assieme alla strategia del “rischio ragionato” – hanno dato una sterzata alla campagna vaccinale.



La mano di Draghi è ferma, ma la sua gestione del potere non appare accentratrice come quella di Giuseppe Conte, che su Palazzo Chigi aveva calamitato poteri quasi assoluti nella gestione della pandemia e si apprestava a varare una governance del Recovery appaltata a manager esterni alle istituzioni che dovevano rispondere non al Consiglio dei ministri, ma direttamente e unicamente al premier. Draghi ha invece disegnato un meccanismo opposto, con una cabina di regia che fa capo all’esecutivo, a partire da Palazzo Chigi e ministero dell’Economia.



Metodi di gestione a parte, ormai il Draghicentrismo è il nuovo perno attorno al quale ruotano la politica, le riforme e le grandi scelte dei prossimi anni. Che resti a Palazzo Chigi, vada al Quirinale o addirittura a Bruxelles per farsi carico di riformare le istituzioni comunitarie (come si vocifera da più parti), in fondo non cambierebbe molto perché la strada è segnata. È curioso che ciò non avvenga con il pugno di ferro: quando divenne premier, si disse che avrebbe governato nonostante i partiti. Invece Draghi ha instaurato uno stile di dialogo aperto, di confronto con tutti, comprese le parti sociali ostinatamente ignorate da Conte. È stata la loro voce a suggerire sostanziali modifiche al nuovo sistema degli appalti come è uscito dal decreto Semplificazioni.



Il modo di fare del premier sta provocando anche varie scosse di assestamento nei partiti, in qualche modo costretti a sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda per non restare ai margini. Da questo punto di vista, è emblematico il rapporto con Enrico Letta, il quale crede di trovarsi ancora nel vecchio schema per cui sono i partiti a dettare la linea al governo e per questo insiste nella proposta inapplicabile di tassare le successioni per regalare la dote ai diciottenni. Ma qualcosa si muove anche dalle parti del segretario Pd. Dopo gli scontri dei giorni passati, Letta ha detto ieri a Sky di aver trovato in Matteo Salvini “un volto vero, senza maschera”. È un attestato di lealtà verso l’avversario, non più delegittimato.

Che l’aria della politica sia cambiata l’ha capito bene un ex scugnizzo come Luigi Di Maio. La sua abiura del giustizialismo manettaro su cui si è costruita la fortuna elettorale dei 5 Stelle è clamorosa; ora però quel capitolo è stato chiuso, sia pure tra mille polemiche, e il Di Maio convertito sulla via del garantismo è pronto a sedersi con Marta Cartabia per discutere di  giustizia. E sarà lui a dare le carte nel M5s, non l’abulico Conte e nemmeno l’amicissimo Alfonso Bonafede che dovrà rassegnarsi a vedere archiviata la sua riforma della prescrizione.

Un altro a essersi adeguato al Draghicentrismo è Romano Prodi, il quale si è sfilato dalla corsa al Colle: “Non è il mio mestiere, sono un uomo di parte, non super partes”, ha detto ieri al Resto del Carlino. Sottrarsi alla guerra delle candidature è sicuramente una mossa furba, ma la motivazione porta acqua alla strategia di un premier super partes: niente contrapposizioni preconcette, ascolto di tutti, decisioni rapide, pragmatiche, non ideologiche. E conseguente occupazione degli spazi.

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