Una grancassa mediatica sta allungando l’eco della decisionistica conferenza stampa di Mario Draghi in cui il premier ha lanciato la prospettiva dell’obbligo vaccinale prossimo venturo e della terza dose imminente per le persone più fragili. Draghi non ha mai citato Salvini per attaccarlo e lo scudo alla Lamorgese è un atto dovuto: se un capo di governo non difende un suo ministro significa che lo sfiducia.



In generale, il premier cerca di tenersi molto alla larga dalle dispute tra i partiti. Per lui i litigi sono una faccenda che riguarda il Parlamento, non il governo. Eppure uno sguardo meno noncurante alla propria coalizione farebbe bene al presidente del Consiglio. A un partito in particolare, il Pd, che attraversa una crisi di leadership profonda quanto sottaciuta. L’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi è stato accompagnato dal cambio della guardia al Nazareno tra Nicola Zingaretti, pilastro dell’alleanza con il M5s che aveva dato origine al governo Conte 2, ed Enrico Letta, richiamato dall’esilio parigino come il salvatore della patria democratica. Ma Letta non ha risollevato granché le sorti. Qualche giorno fa Vincenzo De Luca alla festa dell’Unità di Bologna ha sparato ad alzo zero sul partito, criticando pesantemente l’improvvida accelerazione sul ddl Zan e chiedendo un congresso per decidere la linea del partito.



De Luca è un battitore libero e così è stato liquidato, come se i temi proposti fossero campagna elettorale invece che macigni sul futuro del Pd. Una rondine non fa primavera, e un governatore non fa cadere un segretario. Ma due governatori, entrambi del Sud e serbatoi di voti, qualche preoccupazione dovrebbero sollevarla. Se infatti alle parole di De Luca si affiancano quelle di Michele Emiliano, l’immagine del Pd si offusca ulteriormente. L’endorsement del presidente della Regione Puglia pro Salvini della scorsa settimana va letto in controluce come una forte contestazione alla leadership di Letta. Il quale ha accolto le critiche di De Luca come quelle di Emiliano: con un silenzio tombale.



Aggiungiamo lo scalpitio che giunge dall’Emilia-Romagna, dove un terzo governatore, Stefano Bonaccini, non nasconde l’ambizione di compiere il grande salto verso la segreteria nazionale. E aggiungiamo lo stesso Letta che si presenta alle elezioni suppletive di Siena senza simboli di partito, nemmeno quello di cui è segretario. È il fermo immagine che ritrae una segreteria debole, priva di mordente e incapace di ribaltare le tendenze elettorali rilevate dai sondaggi stabilmente favorevoli al centrodestra. Ci mancherebbe solo che l’ex ministro Roberto Gualtieri mancasse il ballottaggio alle comunali di Roma: per il povero Letta si aprirebbe un baratro.

La crisi del Pd non è una cosa buona per Draghi, visto che è il partito sulla carta più europeista della sua compagine, quello che esprime i principali rappresentanti italiani a Bruxelles, dal commissario Paolo Gentiloni al presidente del Parlamento David Sassoli.

Ma c’è un secondo aspetto che l’esaltazione del Draghi super vaccinatore sta facendo passare sotto silenzio, ed è il famoso G20 per l’Afghanistan lanciato proprio dal nostro premier sull’onda dell’indignazione internazionale contro i nuovi padroni di Kabul. Sono ormai passati oltre 15 giorni dalla proposta del presidente del Consiglio (l’Italia ha la presidenza di turno del G20) e nulla si è mosso. Sul vertice straordinario si addensano fitte nebbie e pesanti perplessità. Draghi non riesce a trovare sponde per la sua iniziativa, a cominciare da Washington e Berlino. Il timore dei Paesi occidentali è che il summit si trasformi in un processo agli Stati Uniti, mentre la Cina preferisce continuare a muoversi dietro le quinte. Così, tra incertezze e indecisioni, il tempo passa e il G20 straordinario esce dai radar e si svuota. Probabilmente l’attivismo telefonico del nostro presidente del Consiglio finirà per esaurirsi nel G20 ordinario già in calendario per il 30 e 31 ottobre a Roma, e l’Afghanistan sarà ridotto a uno dei tanti punti in agenda.

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