Una data incombe sulla politica italiana: è il 3 ottobre, quando a Catania si aprirà l’udienza preliminare a carico di Matteo Salvini sul caso della nave Gregoretti. Se non bastasse, sono arrivate al tribunale dei ministri di Palermo le carte del Senato sul caso Open Arms, per il quale Palazzo Madama ha dato il via libera a un secondo processo per il segretario della Lega: ora questa documentazione è sui tavoli della procura siciliana guidata da Francesco Lo Voi. Per Salvini si prevede un ritorno sull’isola entro il 2020.



Le scadenze giudiziarie contribuiscono a spiegare l’accelerazione impressa dal governo sulle modifiche ai decreti sicurezza: come fai a condannare un ministro, sia pure ex, che ha applicato leggi ancora in vigore? Ma il processo che si apre tra meno di una settimana è in qualche modo la chiave di volta della politica italiana. “Io vado avanti, arrestatemi, condannatemi pure, non cambio perché penso di fare il bene del mio popolo”, disse Salvini. Ma vista la gravità del reato (il sequestro di persona con le aggravanti è punito fino a 15 anni), una condanna superiore a 2 anni comporterebbe la fine della sua carriera politica: in base alla legge Severino, Salvini potrebbe essere dichiarato decaduto o incandidabile, oppure entrambi. Cosa che farebbe felice l’intero arco politico, tranne ovviamente la Lega: da Mattarella a Conte, dai grillini al Pd, da Berlusconi alla Meloni.



L’impresentabile diventato incandidabile: la possibilità è remota, ma non troppo. E anche questo spiega, almeno in parte, la svolta sotterranea in atto nella Lega, cioè un riposizionamento rispetto all’Europa e un ridimensionamento, sia pure minimo, della leadership salviniana. Alle regionali non c’è stata la spallata al governo. Da un paio d’anni il segretario leghista assieme al centrodestra inanellava un successo dopo l’altro nelle regioni e si era convinto che sarebbe arrivato il momento in cui il peso dei governatori di centrodestra sarebbe stato tale da schiantare l’esecutivo. Non è stato così: al momento di conquistare gli obiettivi più importanti (Emilia-Romagna, Toscana, Puglia), il centrodestra ha guadagnato terreno senza però sfondare le linee avversarie.



In più, la pandemia ha avuto come effetto collaterale quello di legare l’Italia ancora più strettamente all’Europa. Finché c’era Mario Draghi alla Bce, le finanze pubbliche italiane beneficiavano del Quantitative easing, una manovra finanziaria governata da un’entità finanziaria, cioè la Banca centrale, che garantiva l’acquisto pressoché illimitato di titoli del debito pubblico calmierando i tassi di interesse. Ora invece i soldi per la ripartenza arrivano da un organismo non più tecnico ma politico, ovvero la Commissione europea. Non c’è più un governatore che impone d’autorità la propria linea, ma una massa di politici e di cancellerie che faticano ad andare d’accordo. E il risultato sarà una gabbia in cui l’Italia sarà costretta a prendere soldi ma anche ordini di risanamento.

In questo contesto, a Salvini viene a mancare l’arma dell’antieuropeismo tout court. Con l’Europa bisogna trattare, non la si può solo attaccare e soprattutto è ormai irrealistico pensare di uscire dall’euro. Non resta che fare buon viso a cattiva sorte e tentare di rientrare nel gioco. Ecco la nuova segreteria politica del partito allargata ai governatori, per modificare l’immagine di un partito dove prevale l’idea dell’“uomo solo al comando”. Ecco le voci di imminente sganciamento dal gruppo lepenista al Parlamento europeo per entrare in una fase riflessiva, preludio a un collocamento più centrista. Ecco Giancarlo Giorgetti (il leghista meno sovranista che ci sia), confermato responsabile esteri, sostenere che è necessario entrare nel Ppe. Un riallineamento in piena regola, che potrebbe anche indurre i poteri che regolano la magistratura a non usare il pugno di ferro nei processi che si apriranno.