C’è un boomerang che attende Giuseppe Conte a Villa Pamphili? È la domanda che aleggia sul futuro del premier. Non che sia in gioco la sua permanenza a Palazzo Chigi, almeno fino all’autunno. Ma quello che colpisce del governo in carica è l’incapacità di mettere effettivamente in moto uno spunto di novità dopo la lunga chiusura pandemica. Un guizzo, una trovata, una fiammella che non si spenga immediatamente dopo essere stata accesa. Nei governi del passato si è visto di tutto: l’immobilismo, il velleitarismo, il populismo, il clientelismo, una lunga serie di ismi che da sempre percorre la vita politica italiana. La cifra di questo Conte 2 è un’altra, l’incapacità.



Prendiamo il decreto Rilancio: i 266 articoli del testo sono composti da 1.051 commi e 620 rimandi, un numero che potrebbe crescere ancora durante l’esame del Parlamento. Un livello di complicazione mai visto: prima ancora delle conoscenze giuridiche, qui manca il buon senso. Prendiamo i soldi promessi per il rilancio dell’economia e il sostegno alle famiglie in difficoltà: ad aprile Conte aveva annunciato che erano stati “liberati 750 miliardi”, ma finora ne sono stati spesi 15, quasi tutti in cassa integrazione per i pochi fortunati che sono riusciti a percepirla.



Ma prendiamo quelli che il premier ha annunciato come l’alba della nuova Italia, gli Stati generali dell’economia. È la sublimazione di un Paese dove, quando non si sa che cosa fare, si vara una commissione. Ora le commissioni sono rimaste soltanto in Parlamento, mentre vanno di gran moda le task force e il loro superlativo assoluto, gli Stati generali. Già il nome porta male: gli Stati generali più famosi della storia, quelli che alla fine del Settecento precedettero la Rivoluzione francese, furono il preludio alla ghigliottina.

La sede scelta per queste assise non è il Parlamento, il luogo della rappresentanza popolare, ma Villa Pamphili, sede della rappresentanza diplomatica e modaiola, potremmo dire il luogo dell’apparire e non dell’essere. Nelle intenzioni di Conte dureranno tre giorni, lo stretto necessario per una passerella visto l’alto numero di intelligenze invitate al consesso a porte chiuse. E poi c’è il convitato di pietra, quel Vittorio Colao voluto dal Colle per supportare la farraginosa azione di governo ma che Conte non ha mai sopportato, e anzi ora ha finalmente liquidato in modo sbrigativo perché la sua task force di “saggi” ha sfornato un libro dei sogni che per assurdo piace più all’opposizione che alla maggioranza.



Agli Stati generali dell’economia, comunque, il centrodestra non andrà, contro il parere di Silvio Berlusconi, per non diventare i valletti del premier; Confindustria è molto scettica, e così pure la Cgil perché i protagonisti del mondo del lavoro vogliono decisioni rapide, non consultazioni, mentre il Pd sbuffa perché pensava a un’occasione di approfondimento reale.

La paralisi che attanaglia l’esecutivo si ripercuote anche sui nuovi dossier che finiscono sul tavolo. Domani il premier sarà sentito dalla procura di Bergamo, dove si indaga sulle responsabilità di chi non ha istituito le zone rosse nelle località lombarde più falcidiate dal virus, e il pm ha già fatto intendere che le colpe stanno più a Roma che alla Regione Lombardia. Ed è nuovamente scoppiato il caso Regeni per la vendita di due fregate militari all’Egitto. L’improvvida operazione acuisce la tensione tra M5s e Pd, il primo più pragmatico (“non stiamo regalando le navi ma le stiamo vendendo”, ha detto il capo politico Vito Crimi) mentre i democratici guardano soprattutto ai rapporti di forza nel Mediterraneo e alle promesse fatte ai familiari del giovane la cui uccisione è ancora avvolta nel mistero. Così l’incapacità al potere batte un altro colpo.

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