“Bisogna arrivare fino in fondo, quello che sta emergendo è obiettivamente incredibile e vergognoso per uno Stato di diritto”. Giorgia Meloni ribadisce lo stesso concetto da giorni. Il centrodestra è unito su questa linea, ma non sulla via per arrivare “fino in fondo”. A differenza di Forza Italia, infatti, la premier rimane refrattaria all’ipotesi di una commissione d’inchiesta parlamentare, ed è opportuno domandarsi il perché.
La spiegazione più semplice sta nelle parole della stessa Meloni, pronunciate ieri a Trento: per varare una nuova commissione servono alcuni mesi, essendo necessario che deliberino sia la Camera, sia il Senato. Si perderebbe del tempo prezioso, mentre c’è già l’Antimafia che sta indagando sul presunto caso del dossieraggio scoperchiato dall’inchiesta di Perugia. Dati tutt’altro che irrilevante: la presidente della Commissione parlamentare antimafia è una esponente di Fratelli d’Italia fra le più vicine a Palazzo Chigi, Chiara Colosimo. Difficilmente poteva essere immaginata una situazione più favorevole, se si pensa che spesso la presidenza delle commissioni d’inchiesta spetta alle opposizioni.
In Antimafia verranno presto sentito il comandante generale della Guardia di finanza, Andrea De Gennaro (è l’arma cui appartiene il tenente Striano, che ha dato la stura al caso), il direttore della DIA Michele Carbone ed Enzo Serata, direttore dell’UIF di Bankitalia. Al contrario, secondo le indiscrezioni, dai presidenti delle Camere sarebbe venuto un no all’audizione dell’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, oggi parlamentare M5s, in quanto vicepresidente dello stesso organismo parlamentare. Via libera, invece, alla convocazione dei ministri Nordio e Crosetto, quest’ultimo autore dell’esposto all’origine della clamorosa inchiesta sulle banche dati violate da Striano.
C’è abbastanza carne al fuoco da ritenersi soddisfatti se le redini delle indagini rimarranno saldamente nelle mani della fedelissima Colosimo. Non si sa mai. Inchieste come questa possono anche riservare brutte sorprese, ipotesi adombrata dal democratico Orlando, ex ministro della Giustizia, secondo cui l’inchiesta potrebbe ritorcersi contro il centrodestra. E chissà se l’apparato dei servizi segreti, che proprio a Palazzo Chigi fanno capo, non abbia suggerito di agire con la massima prudenza. Va detto che Meloni non esclude nulla. Afferma che più avanti si vedrà se c’è bisogno di altro, attirandosi gli strali di Italia viva, che era molto favorevole alla commissione ad hoc, quasi più di Forza Italia.
In posizione più attendista si è collocata la Lega, il partito più rappresentato nella lista dei politici spiati, che di commissione specifica ha smesso di parlare, con Salvini che si limita a ribadire che gli italiani hanno il diritto di sapere se c’era un sistema marcio. Un “se” che è la chiave di volta per capire questa fase. Perché siamo alla zona oscura che nessuno ancora ha afferrato con compiutezza, e cioè le reali proporzioni dello scandalo.
Gli elementi sinora emersi sono inquietanti, soprattutto perché pare che siano risultati vani i tentativi sinora esperiti di comprendere sulla base di quali consegne si sia mosso Striano, chi gli abbia commissionato gli accessi illeciti alle banche dati, e chi ne siano stati i fruitori. Alcuni giornalisti, pare chiaro, ma forse anche altri destinatari finali, forse persino al di fuori dei confini nazionali. A rischio c’è un intero sistema di indagini costruito sulla base di un’intuizione felice di Giovanni Falcone, e il pericolo è quello di screditare completamente la Direzione nazionale antimafia (DNA), a partire dal suo attuale titolare, Giovanni Melillo, esponente di spicco della corrente di Magistratura democratica. E finire in rotta di collisione totale con le toghe è un rischio che Meloni sa di poter correre solo se davvero l’inchiesta troverà prove concrete di vaste responsabilità. Potenzialmente il pentolone scoperchiato è gigantesco. Ma bisogna attendere per capire la reale portata dello scandalo. Nel frattempo, la prudenza è d’obbligo.
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