Partito in apparenza con l’elmetto, Mario Draghi è arrivato a Washington con la bandiera della pace. Fin dal primo incontro con il presidente Joe Biden, davanti al caminetto della Casa Bianca, il nostro capo del governo si è mostrato colomba davanti a un falco mettendo al primo posto la parola “pace”. E potrebbe averlo motivato il fatto che nel popolo italiano si sta diffondendo la richiesta di cessare il fuoco anziché rifornire di armi l’Ucraina. Agli Usa si chiede di “utilizzare ogni canale per la pace, diretto e indiretto” per arrivare a “un cessate il fuoco e l’avvio di negoziati credibili”. Per Biden è stata una sorpresa che traspare da taluni particolari del protocollo, come per esempio l’assenza di una conferenza stampa congiunta finale o della cena alla Casa Bianca.



Il Draghi sbarcato a Washington non è lo stesso di dieci giorni fa, o comunque di quando è stato preparato il viaggio negli Stati Uniti. Nella lunga intervista al Corriere della Sera del 17 aprile, giorno di Pasqua, il premier si era mostrato atlantista puro dicendosi perplesso sull’utilità dei colloqui con Vladimir Putin: “Ho provato a convincerlo a fermarsi, non è stato possibile”, aveva dichiarato. In precedenza, era stato lo stesso Draghi a suggerire le sanzioni finanziarie che avrebbero dovuto mettere in ginocchio l’orso russo. Per gli americani sembrava lui la spalla più affidabile sulla sponda orientale dell’Atlantico. 



Invece le cose sono cambiate in queste settimane. E la novità è proprio che l’Italia non è più il Paese iperbellicista di quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Le conseguenze del conflitto pesano sulle tasche e sul futuro di tutti gli europei, ma degli italiani in particolare perché siamo i più dipendenti dalle forniture energetiche russe. I prezzi salgono al pari delle incertezze sulla stabilità del continente. La stessa sensibilità si sta diffondendo negli altri Paesi europei. Così Draghi, probabilmente suo malgrado, ha dovuto allinearsi. Fino al punto di ammettere che non ci sarebbe nulla di male a pagare le forniture russe in rubli come chiesto da Putin, dopo settimane passate a opporre resistenza.



Tuttavia, più che le pressioni delle altre cancellerie europee, sulla svolta del presidente del Consiglio hanno pesato le resistenze dei partiti che compongono la sua maggioranza. La Lega era stata la prima a distinguersi dal coro guerrafondaio mettendo al primo posto la richiesta di pace. Poi sono stati i grillini a tirarsi fuori: i motivi sono sembrati più tattici che ideali, fatto sta che il M5s è stato nettamente contrario all’incremento delle spese militari (peraltro deciso dal primo governo Conte) e all’invio di armi. Di fronte alla progressiva perdita di consenso, quando i sondaggi hanno mostrato che la maggioranza degli italiani preferisce il gas russo alle armi ucraine i 5 Stelle hanno seguito questa corrente fino a chiedere più volte che Draghi andasse a riferire in Parlamento sugli scenari internazionali. 

Ora anche il Pd si è riposizionato. “Non dobbiamo farci guidare dagli Stati Uniti”, ha detto Enrico Letta nei giorni scorsi, “l’Unione europea è adulta. Questa guerra è in Europa e l’Europa deve fermarla, e sarebbe sbagliato firmare la pace negli Stati Uniti, come fu per l’ex Jugoslavia”. Parole dette al Corriere della Sera il giorno prima che Draghi decollasse per Washington. Dunque, i tre partiti maggiori che sostengono questo governo prendono le distanze dall’enfasi militare americana. Ognuno cerca il suo posto al sole con lo sguardo già puntato alle prossime elezioni. Che forse, tra riposizionamenti e fibrillazioni, potrebbero essere anche più vicine.

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