Quattro voti di fiducia in pochi giorni per il governo Draghi e numerose assenze in aula nelle file del Carroccio hanno messo al centro del dibattito politico le divisioni interne alla Lega. Enrico Letta, segretario del Pd, ha benedetto la Lega che non segue Salvini, e dopo le dichiarazioni di un peso massimo del partito come Giancarlo Giorgetti secondo il quale il green pass “serve ad aumentare la libertà”, molti osservatori hanno pronosticato per il partito di via Bellerio addirittura la scissione. Gli indizi ci sarebbero: governatori contro segretario, imprenditori contro politici, nostalgici del Nord contro i nazional-sovranisti.
Se le fibrillazioni esterne sono evidenti – Salvini sostiene Draghi come Letta e Conte, eppure viene considerato dall’ex maggioranza giallorossa come il vero corpo estraneo alla coalizione che sostiene il governo – le divisioni interne non sono inventate. L’ala nazional-salviniana della Lega, che ha spinto il Carroccio a sfiorare il 40% alle europee, ora rimprovera al suo leader di essere troppo morbido verso decisioni come l’estensione del green pass. Mentre i “governisti” – Giorgetti, Zaia, Fedriga, Fontana – lo vorrebbero normalizzare per ridurre gli scossoni alla maggioranza di solidarietà nazionale creatasi attorno a Draghi.
Nel frattempo l’obiettivo di Salvini sembra un altro: consolidare il partito assorbendo a poco a poco Forza Italia e portando quanti più centristi possibile dalla propria parte. Due episodi degli ultimi giorni lo confermano. Per un’europarlamentare (Francesca Donato) che dà l’addio, arrivano, da una Forza Italia ormai disciolta, tre azzurri in Consiglio regionale lombardo.
Viene dunque il sospetto che la scissione, agitata dalla grande stampa, sia prematura, se non illusoria. Salvini sa bene di avere ancora lui i voti e che tra i governatori del Nord non c’è un leader alternativo disposto a rompere.
Nemmeno Giorgetti è in grado di accantonare Salvini. Il progetto politico del “partito del Nord” non c’è. E neppure il “ritorno ai territori”, l’autonomia differenziata voluta da Zaia e Fontana sulla scia dei referendum del 2017 può essere una bandiera politica, vista la pericolosità di una riforma che scasserebbe le finanze dello Stato e dopo che la mazzata del Covid ha mostrato la debolezza di molti governi periferici.
Più che di Salvini, dunque, che terrà a bada attraverso l’ala governista della Lega, Draghi è preoccupato dalla leadership di Letta nel Pd. Un partito che crede di dare impulso all’esecutivo parlando soltanto di battaglie identitarie senza imprimere forza alle riforme che Draghi è chiamato a varare. Nel Pd si lotta per l’identità di genere, più sbarchi, il ddl Zan, ultimamente per i referendum sulla depenalizzazione della marijuana e la libertà di eutanasia. Ma dalle parti del ministro Andrea Orlando non si muove foglia per riformare il lavoro, cambiare il reddito di cittadinanza, modificare il sistema di reclutamento, favorire la riconversione dei lavoratori espulsi e le assunzioni dei giovani. I ministri Pd sono pronti a fare fuoco e fiamme se Salvini critica Luciana Lamorgese o la riforma del catasto che porterà nuove tasse, ma fanno ben poco per incarnare lo spirito riformista che è la vera cifra dell’esecutivo Draghi. Paradossalmente il premier è più preoccupato di questo paludoso immobilismo democratico che del movimentismo salviniano.
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