Anni or sono scrissi un piccolo libriccino. Si intitolava Frattali ed era un affresco dell’incipiente oligarchia poliarchica mondiale, instabile e contrassegnata da frane, faglie, crolli e lavori continui di manutenzione socio-politica. Subivo ancora la pressione dell’ambiente della crisi di trasformazione degli anni novanta del Novecento, tra attacco neoliberista per via giustizialista ai partiti storici di massa europei contrari alla finanziarizzazione privatizzante: era tuttavia riuscito, quel processo di disgregazione delle forme politiche, solo in Italia (e solo ora si sta spostando con forza nel Sud America seguendo i cicli di potenza degli Usa).



Allora, però, era tutto diverso: si trattava della controrivoluzione apocalittica neo-blairiana e neo-clintoniana fondata sulla creazione di un neo-capitalismo finanziarizzato e neo-schiavistico. L’ideologia era ancora quella della governabilità che la Trilaterale aveva diffuso a partire dalla metà degli anni settanta. Era The Crisis of Democracy: On the Governability of Democracies scritto da Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki, commissionato, appunto, dalla Commissione Trilaterale e pubblicato nello stesso anno come libro. L’edizione italiana apparve nel 1977 con la prefazione di Gianni Agnelli e nessuno ci fece caso. Poi è arrivato Davos, la fiera delle vanità, a cui purtroppo partecipano anche i banchieri centrali ”indipendenti”.



Quel testo non aveva compreso nulla di ciò che stava per accadere: la governabilità vent’ anni dopo sarebbe andata in frantumi. Perché e per come ce lo spiega Antonio Pilati nel suo impareggiabile La catastrofe delle élite. Potere digitale e crisi della politica in Occidente. Al posto della governabilità le poliarchie mondiali tracimavano, con la globalizzazione finanziaria guidata dall’unipolarismo nord-americano e dai corifei del Regno Unito in versione neo-laburista, in una meccanica elitistica del potere non più legittimato dallo stato di diritto, ma dalla legge e dal giurisprudenzialismo, ossia da quello che un antiveggente Pizzorno definì “lo stato dei giudici”: stato che sostituiva lo “stato dei pretoriani” à la Samuel Huntington.



Oggi, se si guarda al mondo dall’Italia, con il framezzo visivo del governo italiano e della tecnostruttura dominante l’Unione Europea, tutto sembra crollare, ma poi si governa e si tira avanti. Le forze motrici della macchina di questa democrazia senza legittimazione non possono che essere i sostegni esterni, non solo tecnocratici o monetaristici. Nascono, tali sostegni esterni, che non sono solo internazionali ma “esterni” perché esterni alle procedure del ruffiniano principio di maggioranza (Edoardo Ruffini, Il principio maggioritario. Profilo storico), esterni alla democrazia parlamentare o alla democrazia presidenziale.

Nascono dalla fine della governabilità e dalla sua disgregazione europea e nordamericana (ecco il problema Trump). Nascono con l’avvento dello stato de-vertebrato e diretto dalle tecnocrazie. Di esse la magistratura è un esempio preclaro e andrebbe appunto studiata in questo senso, sottraendosi in tal modo alle sirene della spicciola polemica politica. Nascono i sostituti della legittimità incarnati dagli “ometti di lego”, ossia ometti dei governi tecnici o leader in provetta costruiti da soft power e azioni diplomatiche da intelligence.

Ne volete un esempio? Guardate al neoeletto presidente ucraino che vuole entrare in Europa ma che deve districarsi con oligarchi invisibili alle masse e potentissimi. Ecco il soft power russo, ben dispiegato e che va ben oltre gli “omini verdi” e la guerra ibrida.

Ci si interroga sul governo italiano: De Maio e Salvini litigano ferocemente… “ed è inspiegabile”, affermano gli osservatori nostrani. Ma il fatto che il governo non crolli non è così misterioso. Comprendere il meccanismo certo è difficile: è una macchina di Leonardo impazzita e si fatica a vedere le rotelle, le pulegge e i mulini ad acqua che ne mantengono in moto il meccanismo. Infatti la macchina è immersa nel Mediterraneo, dove sono entrate (il 25 aprile 2019) due possenti portaerei americane modello Nimitz che incrociano dinanzi alla Libia.

Il motivo? Gli Usa conoscono sin troppo bene il “generale” Haftar, il quale, pur sostenuto tatticamente da sauditi, egiziani, francesi e russi non riesce a vincere sul campo di battaglia. L’Italia fa una politica inesplicabile a prima vista: sbaglia interlocutore, polemizza con chi non deve polemizzare, spreca anni e anni di lavoro di intelligence di primissimo ordine e di straordinaria acutezza. Ma di questo governo è ministro degli Esteri un potente esponente della tecnocrazia europea uso a governar tacendo e per via amministrativa, mentre oggi si dovrebbe far politica internazionale conoscendo e difendendo l’italiano “interesse prevalente”.

Ecco il problema. Questo governo non deve cadere perché in tal modo, non cadendo, l’interesse prevalente non si manifesta e ciò non solo non scandalizza nessuno, ma fa gioire una parte consistente della borghesia vendidora. Per questo tutto pare giocarsi al grido di “onestà onestà!”, eccetera eccetera, secondo il meccanismo prima detto e da Pilati meglio di tutti compreso e descritto. È un disinteresse governativo, non diplomatico, si badi bene, coltivato con tenacia appoggiando chi non può che perdere e quindi ponendo le basi della nostra cacciata dalla Libia. Incredibile.

Il problema, per fortuna, è che gli Usa conoscono Haftar: lo hanno sollevato di peso dal Ciad nel finire degli anni ottanta del Novecento strappandolo alle milizie che lo avevano sconfitto, lui e i suoi mig russi gheddafiani, con le loro Toyota con bazooka fornite dai francesi. Haftar non vale nulla come militare, anche se ama le uniformi sgargianti. Gli Usa dovranno occuparsi della Libia che va somalizzandosi, se non vogliono lasciarla in mano a una nuova, inedita e tattica alleanza russo-egiziano-saudita.

Quindi le pulegge del governo sono mosse dalla situazione mediterranea. Esso non può cadere, pena l’esclusione dell’influenza italiana dal mare nostrum, influenza che deve continuare ad esercitarsi per contrastare la somalizzazione. Il problema è che nel governo e all’opposizione c’è chi lavora proprio per questa non-azione, con conseguenze devastanti: è il partito non eletto franco-cinese con i suoi leader naturali di comprovata capacità quarantennale. Si comprende, allora, perché il primo ministro vola a Pechino per il forum sulla Via della Seta che sta consegnando le telecomunicazioni e la logistica portuale italiana ai cinesi, mentre la Libia è in fiamme. Con gran gioia degli Usa. Ecco un frattale tutto con faglie e crepe e frane che possono far impazzire la macchina.

Non siamo soli: il “bimbo lego” francese sta crollando a picco in quel di Francia e mi riferisco a Macron, naturlich, e allora i guai non possono che aumentare per l’Italia. Perché? Ma perché la nazione che tenta (per il senso stesso della radice geopolitica della sua millenaria storia) di possederci, dai Capetingi prima e dal 1494 poi, non può più sostenere lo sforzo di questo plurisecolare attacco. Pensate: nel 1489 Papa Innocenzo VIII, in conflitto con Ferdinando I di Napoli, offrì il Regno d’Italia al sovrano francese Carlo VIII; certo incoraggiato in quest’avventura dalla morte di Lorenzo de’ Medici, signore di Firenze e architrave dell’ equilibrio di potenza tra gli stati italiani. Carlo VIII è altresì sorretto dai disegni di Ludovico Sforza, il Moro, allora reggente di Milano. Tutto si concluse allora con la sconfitta di Carlo VIII, ma anche dei disegni di riunificare le sparse membra italiche: dopo la battaglia di Fornovo, del 1495, che vide Carlo VIII tornare in Francia. Lo sappiamo: i contrasti tra gli stati italiani continuarono, ma l’influenza francese rimase fortissima come dimostrò la difesa del Papa da parte dell’esercito francese a Porta Pia nel 1870 e come dimostrano le vicende dell’economia e della politica italiana da più di trent’anni.

Ora anche i francesi credo abbiano perso la forza (e la speranza) di occuparsi di questo Stato pericolante e de-vertebrato. Questo spiega perché il governo non può cadere, pena una catastrofe non solo italica, ma mediterranea. L’ impresa di conquistarci è troppo difficile: è rischiosa ben più di quanto non si potesse mai immaginare. Capite allora lo sconcerto della Lega e dei suoi capi, che tutto sono meno che degli “omini lego” alla Macron, ma leader politici ben piantati nei territori e nella legittimazione democratica. Forse un po’ troppo, perché un po’ più di autonomia dalla società civile, secondo la teoria di Paolo Farneti, non guasterebbe e diverrebbero, così, più che politici, compiutamente statisti.

Insomma, eccoci qui: i frattali sono certo fastidiosi, come accade in tutte le decadenze per la parte civile e ancora sana di una società, e di quelle comunità che ancora rimangono in vita. Ma, a meno di non sprofondare nel Mediterraneo, questo governo dobbiamo tenercelo: agli Usa, del resto, una macchina anti-francese e anti-tedesca come quella oggi traballante in Italia fa comodo nella guerra anti-mercantilistica europea condotta da Trump. Certo gli interessi prevalenti dell’Italia sarebbero e sono altri, oltre a quelli di un sano atlantismo. Ma di questo è impossibile discutere nell’isteria di massa odierna.