Queste dimissioni date il giorno di Natale non ci volevano proprio. Anche perché tutto sommato le cose si stavano mettendo per il verso giusto. La legge di bilancio approvata in tempo, anche se con qualche grossa forzatura procedurale. Le buone notizie in arrivo dalla campagna elettorale in corso in Emilia-Romagna. I sondaggi che rivelano una tenuta costante del Pd. Addirittura l’irrequieto Di Maio che si è messo a fare il filo-governativo. Insomma sembrava filare tutto liscio in vista dell’inizio del 2020, quando il semi-sconosciuto ministro all’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha deciso di fare il protagonista e di dimettersi.
Le ragioni dell’irritazione del Pd sono numerose, ma tra queste ce ne sono due che non sono andate proprio giù al segretario nazionale.
La prima riguarda l’argomento su cui Fioramonti si è dimesso. Il Pd da anni subisce sul tema della scuola una continua e pesante umiliazione. La rottura con quello che per decenni è stato il suo mondo di riferimento e il suo principale bacino di voti si è consumato nei mesi della “Buona Scuola” ideata da Matteo Renzi. E da allora non c’è stato verso di recuperare.
Sentirsi ora messi sotto accusa da un esponente dei 5 Stelle per non aver destinato alla scuola e all’università i 3 miliardi che l’ex ministro aveva chiesto, ha per i Dem il sapore, oltre al danno, della beffa.
Chi meglio del Pd sa che il problema della scuola non sono i soldi, ma come essi vengono spesi, e soprattutto quale livello di partecipazione e coinvolgimento si è in grado di costruire intorno ad ogni voce relativa alla parola “cambiamento” e ogni volta che si vuole fare un “investimento”.
Diciamo le cose come stanno: è dalla pesante sconfitta subita dal disegno di riforma – la prima ad essere improntata al tema dell’autonomia – del ministro Luigi Berlinguer (eravamo nel 1996, primo governo Prodi) che la sinistra ha spezzato quel “filo rosso” che la legava al mondo della scuola italiana. Sarà perché è sempre stata compiacente nei confronti di un sindacato di categoria ridotto a mera forza di conservazione, sarà perché non si può prescindere, come invece si è fatto, dalla qualità dei dirigenti della pubblica amministrazione, sarà perché la sinistra è sempre arrivata in ritardo sui contenuti, certo è che i legittimi eredi della “scuola democratica e di massa” non sono stata più in grado di organizzare una proposta di riforma degna di questo nome.
Anche per questo la “Buona Scuola” di Renzi piuttosto che essere vista come una possibile soluzione di problemi antichi, è diventata subito un enorme detonatore in grado di far saltare in aria tutte le contraddizioni e i conflitti contemporaneamente.
Del tutto inutile a quel punto cercare di spiegare che si stava realizzando il più grande investimento in risorse finanziarie (oltre 4 miliardi e mezzo) da vent’anni a questa parte.
Ora, diciamo la verità, subire l’umiliazione di dover assistere ad un ministro grillino, che dopo aver imposto con i suoi colleghi di governo la conferma sia dei 16 miliardi per quota 100 che degli oltre 8 per il reddito di cittadinanza, si mette a fare le pulci alla legge di bilancio e si prende il merito di difendere la scuola, è una cosa assai difficile da digerire.
Ma la seconda ragione è – se possibile – ancora più importante della prima. Occorre ammettere che Fioramonti – a torto o a ragione – alla fine ha avuto con il suo gesto il merito di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema reale. Insomma, non gli si può contestare certo di aver fatto il ministro, a modo suo ha difeso il mondo che era stato chiamato a rappresentare, ha fatto sentire la sua voce in un contesto dove è pressoché impossibile per una “seconda linea” far semplicemente ascoltare quello che si ha da dire.
La seconda ragione infatti va letta al contrario, e riguarda proprio l’insipienza degli altri ministri, soprattutto quelli targati Pd.
Sono essi ad aver preso il loro lavoro con il solito piglio da “travet” della politica. Come si comportano i membri del governo targati Pd? Vanno in ufficio, aprono il ministero alle 8, smettono nel pomeriggio, firmano, sbrigano, coordinano gruppi, ascoltano i dirigenti e tengono in conto quello che hanno da dire, risolvono tante piccole vicende con la solita abilità, a prescindere dal fatto che esse non interessano a nessuno.
Non vi è nulla di peggio – nel panorama politico italiano – del ministro targato Pd. Essi sembrano avere come unico obiettivo quello di non sbagliare, di stare lontano dai problemi scottanti, di evitare le bucce di banana. Se prima di essere prescelti erano aperti e disponibili con tutti, ora preferiscono non incontrare nessuno, dribblano le questioni che “arrivano” dal partito, filtrano e ritardano ogni richiesta di incontro fino a che gli interessati non desistono, mettendo così a dura provo anche i più tenaci.
Insomma, deve aver pensato Zingaretti, la squadra non c’è, non produce risultati apprezzabili, lasciano sempre il campo agli altri della coalizione.
Gli altri ministri infatti sono ben più agguerriti, pronti a distinguersi in ogni occasione, sanno polemizzare, si sono organizzati per far sentire la loro voce, parlano anche per la parte politica che rappresentano. Solo il buon Speranza di Leu sembra non aver dimenticato la vecchia scuola, infatti anche di lui si sono perse le tracce.
Zingaretti sa che la delegazione al governo, a cominciare da colui che la guida, così come è non va da nessuna parte. Quando parlano sono noiosi. Va bene che lo sia il ministro dell’Economia, che parla di numeri, ma agli altri sarebbe richiesta ben altra “verve”. Non si battono abbastanza, non si sforzano di costruire sponde in grado di dare al Pd visibilità e far prevalere così un punto di vista autonomo.
Insomma, non è mai piacevole il mestiere di chi va a togliere le castagne dal fuoco, ancor meno – deve aver pensato Zingaretti – se poi il fuoco è quello amico.