Il Governo italiano ieri ha dato il via libera alla golden power sul patto parasociale sulla governance di Pirelli. Si legge nel comunicato emesso dall’Esecutivo che “la decisione del Governo, nel rispetto del principio di proporzionalità, prevede apposite prescrizioni per la tutela dell’asset strategico costituito da sensori CYBER impiantabili negli pneumatici”.



Dopo qualche settimana di discussioni il Governo italiano ha deciso alla fine di limitare i diritti della cinese ChemChina che è principale azionista di Pirelli con una quota del 37%. L’unica colpa di ChemChina è sostanzialmente quella di essere cinese. I sensori Cyber, secondo il Governo, sono una “tecnologia di rilevanza strategica nazionale” e “sono in grado di raccogliere dati del veicolo riguardanti, tra l’altro, gli assetti viari, la geolocalizzazione e lo stato delle infrastrutture”. La distanza che intercorre tra una tecnologia che finisce negli pneumatici e, supponiamo, un’altra che finisce nei cingolati dei carri armati dell’esercito italiano è notevole. È naturale chiedersi se il Governo cinese non veda in questa iniziativa dell’Esecutivo italiano l’inizio di una nuova fase in cui le imprese cinesi sono caldamente invitate a non investire in Italia pena il rischio di perdere diritti normalmente associati al possesso delle azioni. Questo “incidente politico” eccede l’episodio singolo di cui pure Pechino non può rallegrarsi.



Non solo non ci si può aspettare un applauso scrosciante da parte cinese, ma probabilmente bisogna mettere in conto una reazione che a sua volta può essere l’inizio di un’escalation. Ipotizziamo pure che, dato il contesto geopolitico e le alleanze di cui l’Italia fa parte, una guerra commerciale con la Cina sia inevitabile; a questo punto bisogna chiedersi se a Palazzo Chigi ci sia la consapevolezza di cosa può significare. Non è tanto una questione riguardante le esportazioni italiane in Cina. Ci sono tante imprese italiane, anche iconiche, che negli ultimi due decenni hanno investito e aperto impianti in Cina e che da ieri si devono chiedere se non saranno vittime del fuoco incrociato. Ancora più importante è che, come buona parte del resto del mondo “occidentale”, le catene di fornitura di molti settori industriali italiani affondano in Cina; dalle componenti plastiche meno nobili fino ai pannelli solari.



Sostituire le forniture cinesi comporta uno sforzo economico colossale e un lasso di tempo che si misura in non meno di un decennio. Questo dovrebbe sollevare almeno due riflessioni.

La prima è cosa succede se la guerra commerciale diventa “dura” prima che il sistema italiano abbia un’alternativa locale o “amica”. La seconda è quale siano le risorse che il sistema deve mettere in campo per ottenere questo risultato in un mondo che, ci sembra, va verso inflazione e tassi di interesse strutturalmente più alti di quelli a cui eravamo abituati. Il Governo italiano, con la sua decisione, si precipita a fare un passo che rischia di avere conseguenze serie e che non ha molti paragoni “da questa parte del muro”. Infatti gli Stati Uniti da almeno un anno hanno iniziato un processo di reshoring, di rimpatrio di alcune produzioni, che è condizione necessaria per potere affrontare la “competizione” con la Cina, che non può più essere la fabbrica del mondo. Ma l’Italia ha compreso quali sono i rischi per le proprie catene di fornitura in un mondo in cui sono tutti molto più parchi nel condividere risorse, competenze e beni?

C’è poi un’altra questione. Sostituire la Cina con produzioni fatte in “Occidente” comporta prezzi molto superiori per famiglie e consumatori. In un orizzonte di tempo abbastanza lungo si può immaginare un percorso in cui i salari aumentano in linea con o più dell’inflazione, ma nello scenario che si sta sviluppando e che osserviamo non sembra esserci spazio per questa dinamica. Da un lato si predica responsabilità per contenere l’inflazione, con l’ovvia e inevitabile conseguenza di un impoverimento della popolazione, dall’altro inflazione più alta significa tassi di interesse più alti con i debiti privati e soprattutto pubblici molto più alti di cinque anni fa.

In conclusione, la questione non è tanto se sia giusto o meno rompere con la Cina. Ipotizziamo pure che sia giusto per come si sta sviluppando lo scenario geopolitico. La questione è che questa rottura non è né indolore, né tantomeno innocua per il sistema produttivo e per i consumatori. Si dovrebbe accelerare non prima di avere un’alternativa ma, semmai, dopo.

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