Sopravviverà il governo alla settimana più calda dei suoi 13 mesi di vita? Per rispondere a questa domanda serverebbe la palla di vetro, o essere nella testa di Matteo Salvini. Resta, infatti, il capo leghista il leader che deve scegliere, se andare avanti oppure no. Se fosse per i suoi fedelissimi la spina a Conte sarebbe stata staccata da mesi, ma il vicepremier ha scelto di andare avanti. Sinora i numeri, tanto quelli elettorali delle europee, quanto quelli dei sondaggi gli hanno dato ragione. La Lega non sembra per ora neppure risentire di scivolose inchieste giudiziarie come i presunti finanziamenti da Mosca. Ma sino a quando durerà questo stato di grazia?



Le troppe volte in cui è scattato a vuoto l’allarme rosso che indica l’arrivo della burrasca consigliano cautela. In fondo, esistono validissimi argomenti tanto a favore, quanto contro l’idea che Salvini sia prossimo a decretare la fine dell’esecutivo gialloverde. Di certo c’è la crescente insofferenza del ministro dell’Interno verso l’alleato, che si mette costantemente di traverso su ogni tema, proponendo ben poco di proprio. Dall’autonomia delle Regioni del Nord alla Tav, dalla Gronda di Genova alla linea dura sull’immigrazione, dall’atteggiamento da tenere in Europa alla flat tax prossima ventura lo scontro sembra totale, troppo aspro per non sfociare in una rottura. Salvini reclama a gran voce un cambio di passo, e la fine della politica dei no. Ma allo stesso tempo assicura di non essere a caccia di poltrone, quanto di risposte concrete. Certo, nel suo mirino è finito il pentastellato più “signor no” di tutti, il ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli. E quello scalpo potrebbe rappresentare per il Carroccio uno scalpo non da poco.



Viene da chiedersi se i 5 Stelle sopporterebbero di pagare un prezzo del genere alla sopravvivenza del governo, e la risposta non è scontata, né in un senso, né nell’altro. Di Maio chiede da giorni un incontro all’altro dioscuro, ma senza risultato, anche se voci di transatlantico parlano di un contatto telefonico fra i due.

Voci, appunto. Un’altra certezza, invece, è che l’interlocutore di Salvini in questa fase sia diventato il premier Conte, i cui indici di popolarità sono leggermente più alti del leghista, ma soprattutto infinitamente migliori di quelli di Di Maio. Salvini, però, ha smentito che il suo obiettivo sia una crisi per andare a occupare lui l’ufficio di premier: il capo del governo è un ruolo che gli fa gola, ma solo con una vittoria elettorale. E viene da credergli, ricordando la congiura di palazzo che portò Renzi a Palazzo Chigi, rivelatasi il principio della fine per l’ex sindaco di Firenze.



Esclusa questa ipotesi, molte altre restano valide, da una crisi aperta in extremis negli ultimi giorni in cui è possibile sciogliere le Camere per votare a fine settembre, così da non dare il tempo di creare nulla di alternativo. Salvini è sufficientemente scafato da sapere che se dovesse nascere un nuovo governo (con lui fuori per non intestarsi la legge di bilancio), questo non avrebbe la data di scadenza stampigliata sopra, come uno yogurt: partirebbe per fare la manovra economica, ma rischierebbe di durare quattro anni, anche perché i tre quarti dell’attuale Parlamento non hanno alcuna speranza di essere rieletti, se aggiungiamo alla profonda trasformazione della mappa del consenso anche il taglio di 345 del 945 posti in Parlamento. Una riforma costituzionale che ha già superato tre dei quattro voti previsti.

In quattro anni all’opposizione tutto potrebbe cambiare. Salvini lo sa, e difficilmente vorrà correre questo rischio, perché il consenso (che oggi gli fa sognare, secondo alcuni, persino una corsa solitaria) potrebbe non passare mai dal virtuale dei sondaggi al reale dei seggi in Parlamento.

Il momento della verità arriverà fra mercoledì e giovedì. Mercoledì Conte riferirà in Senato sul Russiagate proprio mentre la Camera voterà la fiducia al decreto sicurezza bis. Può un governo incassare la fiducia, e dimettersi lo stesso giorno? Poco probabile, anche se non si può escludere del tutto. Forse ancora più delicato sarà il passaggio di giovedì in Consiglio dei ministri sull’autonomia, un tema su cui Salvini ha mandato avanti i suoi governatori, Zaia e Fontana, e sinora ha evitato di intervenire. Cadere su questo avrebbe un senso, ma resterebbe da spiegarlo al Sud. Sarebbe più facile trovare un’intesa, e andare avanti. Almeno per un po’.