Lo stolto guarda il dito anziché la luna che quel dito indica. E ieri le polemiche del premier Conte e dei Cinquestelle contro il vertice sull’economia convocato al Viminale dal vicepremier e ministro dell’Interno e capo della Lega Matteo Salvini si sono stoltamente concentrate sulla sede istituzionale prescelta – il dito – anziché sul fatto in sé, che cioè Salvini abbia potuto attrarre senza imbarazzi di nessuno tutti gli interlocutori socio-economici di qualsiasi Governo a parlare di manovra economica da semplice capo della Lega. Il messaggio che emerge dalla riunione è quello: se il vicepremier leghista convoca, si va – tutti insieme – perché è l’uomo che conta, o almeno ci prova.



Dunque le polemiche sul luogo e sul modo sono state pura fuffa politicante. La sostanza è ben diversa, e chiaramente più grave, per i Cinquestelle e per la sostenibilità del quadro politico italiano. Salvini guida ormai un Governo ombra, al quale ben 43 sigle sindacali e padronali hanno ritenuto di poter riservare la massima attenzione, comprese quelle – come la Cgil di Maurizio Landini – politicamente più lontane e avverse alla Lega, perché – pur se nella confezione meno istituzionale e anche meno concreta possibile – tuttavia l’interlocutore in felpa è titolare oggi di un indiscutibile consenso popolare e di un approccio decisionista che spesso i fatti hanno smentito, ma qualche altra volta no.



Il guaio è che ovviamente un Governo ombra non governa: di solito chiacchiera, al massimo propone, raramente ottiene. E in questo momento l’Italia anziché avere un Governo vero ne ha due ombra. Anzi tre, perché ce n’è un terzo, l’unico che coinvolga attivamente il premier Conte, tutelato dal presidente Mattarella e diretto dai direttori generali della Commissione europea col ministro Tria, che presidia la compatibilità dei conti pubblici italiani con i parametri unitari. Quindi tre governi e neanche uno vero e funzionante.

Detto ciò, non è stigmatizzando questi pretesi strappi istituzionali che i molti ma velleitari nemici del leghista possono sperare di fargli perdere terreno. Le sedi ufficiose sono sempre state quelle decisive per le scelte cruciali dei governi. Dai “patto della crostata” (a casa Letta, nel ’97, per salvare la Bicamerale, tra D’Alema e Berlusconi con Fini e Marini) allo stesso patto del Nazareno, tra Renzi e Berlusconi alle infinite “cabine di regia”, inventate da Craxi nell’83, che introducevano un organismo para-costituzionale per circoscrivere ai soli leader dei partiti di coalizione il momento decisionale vero rispetto a quello assembleare con i cacicchi di ciascuna sigla…



Dunque nessuno strappo e niente di nuovo sotto il sole. Non è blaterando di scandalo per il vertice del Viminale che i Cinquestelle e il Pd possono sperare di indebolire Salvini. Possono soltanto sperare – e di fatto sperano – che torni in campo il fattore P, che a sua volta altro non desidera: P come Procure, ovvero l’autentico e solo mazziere della politica italiana dal 1995, quando un avviso di garanzia inconsistente falciò via il primo governo Berlusconi inaugurando un quindicennio coronato nel 2011 dalle rovinose dimissioni del Cavaliere seguite poi dalla condanna, dalla sospensione e dalla sua attuale e sostanziale uscita di scena per raggiunti – oggettivamente, pur se non secondo l’interessato – limiti di età.

Salvini è giovane e finora – sottolinea chi lo conosce meglio e lo stima – si è dimostrato personalmente immune da contaminazioni di carattere penale capaci di fornire alle toghe l’occasione per buttarlo giù. Nulla del genere è emerso nel caso della linea anti-immigrazione clandestina, nulla del genere nel caso delle accuse ad Armando Siri, nulla del genere – con buona pace degli increduli – nella vicenda dei 49 milioni sottratti dal cerchio magico di Bossi.

Gli sarà possibile, come ha sostenuto da subito, dimostrare alla bisogna altrettanta estraneità dai risvolti palesemente imbarazzanti del Russiagate? Sul piano del coinvolgimento personale, nuovamente sì: basta non averli presi, i rubli. Sul piano dell’imbrattamento politico, ovviamente no: perché altro è dichiarare ufficialmente e anche coraggiosamente che le sanzioni contro la Russia sono demenziali – vero – sfoggiando addirittura felpe che declamano il concetto, altro è non trovare nulla di anomalo e scivoloso nel fatto che personaggi direttamente riconducibili a sé, intanto che lui fa politica, trattano business con il Cremlino al di fuori di ogni canale istituzionale.

Ma ancora una volta, queste sbavature più che altro di stile non tolgono voti a Salvini, convincono solo gli antisalviniani a esserlo ancora di più, e i salviniani a rafforzarsi nel loro credo. Proprio il Pd, poi, in fatto di rubli dovrebbe avere il pudore di tacere, visto che per quarant’anni il partito da cui nasce quello guidato oggi da Zingaretti è vissuto (leggasi “L’oro di Mosca” di Gianni Cervetti, già eurodeputato Pci nell’84 e membro della Commissione per i bilanci) grazie ai rubli del Pcus. No, queste sbavature possono diventare pericolose per Salvini solo se presteranno il fianco a qualche Procura per aprire un dossier contro di lui, con ipotesi di reato precise. E molte Procure d’Italia non stanno lavorando ad altro.

Nel frattempo, però – e con buona pace dell’energica leadership di Salvini, confermata ieri dalla folla di interlocutori affluita al Viminale – in Italia un Governo non c’è. C’è una surroga, occasionalmente gestita da questo o quell’ufficio: Viminale compreso, sui temi della sicurezza; Mef compreso, nei rapporti con l’Europa; Mise escluso, per inconsistenza totale degli inquilini, per cui anche l’asse con Atlantia per il tentativo di rilancio dell’Alitalia è passato sostanzialmente sopra la testa del ministro Di Maio.

Solo che di surroghe si muore, il Paese s’incarta soprattutto perché così non può ritrovare fiducia in se stesso e nel suo futuro. Chi comanda? Non si sa. Chi deciderà sul serio dove andranno le nostre tasse, le nostre pensioni, il lavoro dei giovani? Non si capisce. E allora troppa gente spende meno di quel che potrebbe, consuma meno e tiene i soldi bloccati sui conti correnti bancari o in lingottini nelle cassette di sicurezza; gli imprenditori non investono, o cercano di investire all’estero; i giovani in gamba cercano formazione e lavoro oltreconfine.

Quando la cifra della relazione politica sono la rissa e l’insulto – da ambo le parti, perché i leghisti in genere e talvolta lo stesso Salvini non risparmiano parole sbagliate – quando il dissenso e la dialettica non hanno mai un contenuto correttivo ma sempre e solo confutativo, l’impressione è che sulle partite importanti il Paese non possa andare da nessuna parte. Con la spada di Damocle delle Procure pronta a sparigliare: e non certo per un complotto o sotto la regia di un Grande Vecchio. Sarebbe già qualcosa, se ci fosse.