Se il mini test elettorale siciliano doveva dare delle risposte, quelle arrivate non sono buone per i partiti di governo. Tanto Salvini quanto di Maio ne possono trarre spunti di riflessione in grado di generare correzioni significative della linea politica.
Cominciamo dal leader della Lega. Il simbolo di Alberto da Giussano va in doppia cifra in quasi tutti i comuni in cui è stato presentato, e questo dovrebbe essere un risultato eccellente, impensabile sino a due o tre anni fa. È il segno di un Carroccio sempre meno padano e sempre più partito nazionale, ma è anche il segno che nella più grande regione del Sud i tempi non sono maturi per una Lega che corra da sola. Matteo Salvini in cuor suo sperava, infatti, che i candidati per i quali si è speso in prima persona fossero più competitivi, soprattutto nei confronti di quelli appoggiati dal resto del centrodestra (Forza Italia, Fratelli d’Italia e liste locali). Esemplare il caso dell’unico capoluogo, Caltanissetta, dove il candidato leghista arriva quarto, e al ballottaggio vanno il portabandiera del centrodestra e quello dei 5 Stelle.
Certo, un salviniano in corsa al secondo turno a Gela e Mazara del Vallo sarebbero stati impossibili da pronosticare solo pochi mesi fa. Ma l’impressione di tutti gli osservatori è che per adesso nel Sud Salvini abbia ancora bisogno di Berlusconi per vincere nei collegi, se tutto dovesse precipitare verso le elezioni anticipate. Del resto, le vittorie a raffica in Abruzzo, Basilicata e Sardegna hanno premiato un centrodestra unito e largo, proprio quello schieramento che il ministro dell’Interno sogna di archiviare, tenendo con sé forse solo Giorgia Meloni, con qualche transfugo di Forza Italia, come Giovanni Toti. Se questa sensazione verrà confermata tra un mese nel voto europeo e amministrativo del 26 maggio, Salvini sarà costretto dai fatti a riconsiderare le sue prospettive di corse solitarie.
Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle, nulla di nuovo sul fonte siciliano. La crisi continua, cadono le amministrazioni pentastellate di Gela e Bagheria, unica consolazione il già citato ballottaggio di Caltanissetta. La nuova strategia di aprire alla collaborazione con le formazioni civiche non si è ancora dispiegata, e non è detto che fra un mese le cose possano essere diverse. Per Luigi Di Maio le ragioni di nervosismo aumentano e l’unica reazione possibile è continuare nella quotidiana guerriglia con l’alleato-avversario leghista, dove si segnala l’apertura di uno o due fronti polemici al giorno. Una situazione surreale di zuffa continua, che ha avuto però due effetti non del tutto spiacevoli: da una parte mantenere marginale il ruolo dell’opposizione (Lega e M5S occupano tutta la scena, scambiandosi in continuazione i ruoli di lotta e di governo), dall’altra frenare l’emorragia di consensi grillina, evitando – secondo tutti i sondaggi – il sorpasso da parte del Pd e il crollo sotto la soglia psicologica del 20%.
Ad allungare l’elenco sterminato delle materie di scontro dentro la maggioranza oltre al caso Siri, all’autonomia delle regioni, alle province, ci sono adesso anche le richieste leghiste di un giro di vite sulle droghe e la castrazione chimica per gli stupratori, cui i 5 Stelle contrappongono 5 leggi da approvare subito (a norma del contratto di governo, dicono) su acqua pubblica, taglio dello stipendio dei parlamentari, salario minimo, conflitto di interessi e sanità. Si vedrà dopo il 26 maggio, come minimo il governo Conte avrà bisogno di una profonda verifica, stile Prima Repubblica. Un tagliando profondo del contratto di governo, che sembra essere stato scritto non dodici mesi, ma dodici anni fa.
Sullo sfondo resta uno scenario da qualche settimana sottotraccia, quello del dialogo fra 5 Stelle e Pd. L’apertura di Graziano Delrio sul salario minimo è stata precipitosamente stoppata da Zingaretti, e derubricata come scivolone. Poco credibile, vista la proverbiale prudenza dell’ex sindaco di Reggio Emilia. Ma resta quello l’unico forno che Di Maio può aprire per rispondere a Salvini, nel momento in cui dovesse concretizzarsi la rottura. Fu Andreotti a coniare quell’espressione: “politica dei due forni”. La DC aveva socialisti e comunisti. Salvini ha grillini e centrodestra. Di Maio a un certo punto potrebbe non aver scelta e dover provare ad aprire al Pd. E anche ai democratici potrebbe convenire per rientrare in partita.