Dopo la Leopolda, dopo l’Umbria, ma soprattutto dopo il parto faticosissimo della Finanziaria 2020, Nicola Zingaretti ha ripreso a pensare alle elezioni anticipate come ad un passaggio inevitabile.

La ragione principale – il pericolo Salvini, il fascismo alle porte – per cui è nato in pieno agosto il governo giallo-rosso, non solo non è stata eliminata, ma addirittura è diventa, se possibile, più pressante. Il “pericolo” non sembra affatto svanito. La vittoria schiacciante in Umbria del centro-destra ha dimostrato come la momentanea difficoltà manifestata dal Capitano dopo la scacco subìto ad agosto, si è in appena due mesi trasformata in una nuova spinta in grado di compattare il centrodestra e portarlo oltre il 50%.



Conta poco adesso ma vale la pena sottolinearlo: avevano ragione da vendere quei pochi temerari che hanno cercato inutilmente di impedire la nascita del Conte 2.

La crisi dei 5 Stelle sembra più seria di quella emersa con il voto europeo, e si sta rivelando diretta conseguenza di un problema strategico e cioè il frutto della crisi politica del progetto grillino.



La “modalità” autolesionista con cui la maggioranza ha condotto la discussione sulla legge di Bilancio ha fatto il resto. Lo spettro della fine dei governi Prodi nel 1998 e nel 2008 agita i sonni di Mattarella e di molti leader europei. Due cose il Pd non dovrebbe mai fare, memore delle lezioni del passato: apparire come il partito delle tasse (vi ricordate Visco?) e come il partito che dà sempre ragione ai pubblici ministeri. Le ha fatte entrambe, senza neanche accorgersene. Ripetere gli stessi errori è davvero “diabolico” oltre che motivo sufficiente per mandare a picco quel poco di credibilità conquistata dal Conte 2 con la svolta estiva.



Anche l’alleanza con il Movimento è ora ferma al palo. Altro che accordi su larga scala in tutte le Regioni! Si sono rafforzati i contrari (Di Battista in testa) e lo stesso Di Maio sta cercando di usare la sconfitta in Umbria contro i capi storici e lo stesso Conte, che lo avevano ridimensionato agli occhi del Movimento.

Renzi da parte sua annaspa con il suo partitino del 3-4% e può pensare realisticamente di sopravvivere solo se qualcuno gli regala una legge elettorale proporzionale.

Ecco ora le due cose che Zingaretti non deve proprio fare: da un lato mettere mano alla legge elettorale e dall’altro impedire che si raccolgano le firme sufficienti per indire il referendum confermativo del taglio dei parlamentari.

Come sappiamo i 90 giorni per depositare un quinto delle firme dei membri di una Camera scade il 9 gennaio e i deputati renziani stanno lavorando fianco a fianco (sia quelli andati in Italia viva come Giachetti e Marattin, sia quelli restati nel Pd, come Nannicini e Ceccanti) per raggiungere il quorum. Se ci riescono scatta la sospensione dell’introduzione della nuova norma e per il taglio dei parlamentari bisognerà attendere il referendum. Si aprirà a quel punto una interessante “finestra temporale” in cui se si tornasse a votare lo si dovrebbe fare con la stessa legge elettorale (il Rosatellum) e con lo stesso numero di seggi da assegnare.

Per Zingaretti un’occasione troppo ghiotta per chiudere la partita. Un vero e proprio match point. In un sol colpo dimezzerebbe i 5 Stelle e farebbe di Italia viva un partitino corsaro e irrilevante. Oltre a vedere sancita nel centro-destra la fine dell’ala moderata rappresentata da Forza Italia. La partita nei collegi uninominali a quel punto potrebbe essere condotta a viso aperto e il risultato finale potrebbe essere addirittura diverso dalle attese.

Ma anche nel caso vincesse Salvini, la risalita sarebbe più agevole e soprattutto sotto la guida di un Pd che non ha smarrito la sua funzione centrale.