La sorte è molto ironica, e la storia – il nome che i vincitori danno alla sorte, scrivendola nei loro annali e a modo loro – lo è anche di più. Ironia della sorte o della storia, il presidente francese Emmanuel Macron che ieri sera a Roma ha incontrato mezz’ora il presidente italiano Sergio Mattarella e poi il premier Giuseppe Conte è oggi considerato il paladino del futuro dell’Unione Europea ma è anche, oggettivamente, il leader più sostanzialmente sovranista che c’è, da fare ombra a Orbán, Le Pen e Salvini messi insieme.
È il capo di un Paese che contingenta i film americani; o che prescrive l’uso delle parole francesi anche in materia di indiscutibili e storiche predominanze anglosassoni, basti pensare che i computer li chiamano “ordinateur”, roba che noi italiani abbiamo archiviato col Ventennio e con le sue parole di regime a sostituire quelle importate, per cui “garage” divenne “autorimessa”.
Ebbene, Macron ha controfirmato negli ultimi anni le politiche germanocentriche delle istituzioni europee perché non aveva visioni alternative e sostegni antagonisti, ma ha avuto la fortuna di incrociare l’inizio del declino della Merkel e dell’economia dell’ex Reich. E dunque ora ha sul piede la palla del gol e vuol cogliere l’occasione per reincarnare il mito della grandeur ricollocandosi al centro della tolda. Rispetto alla Germania ha un asset: la difesa, su cui Berlino ha mille vincoli, lui di meno. Ed ha una corona di asset geopolitici internazionali su cui far leva. E ancora: tanta arroganza.
Questo campione ha bisogno di gregari, non di soci parigrado. Sa che l’Italia è come un ripetente al primo giorno di scuola, all’ultimo banco della classe europea. Offre solidarietà e protezione, forse più di facciata che altro – per esempio sulla suddivisione volontaria dei migranti di primo approdo, ma probabilmente solo quelli identificati come aventi diritto all’asilo, ovvero il 10% scarso – ma chiederà un prezzo alto.
Quale? Un prezzo economico. Le partite italo-francesi ancora aperte sono tante. Lo Stato francese è strutturalmente il più nazionalisticamente capitalistico di tutti quelli dell’Unione. È sostanzialmente governata, ancorché solo blandamente partecipata, dallo Stato l’Air France. Gravita attorno al potere pubblico la telefonia. L’influsso governativo sulle maggior istituzioni finanziarie è molto incisivo.
È aperta la partita del controllo della Stx, la grande azienda dei cantieri di Saint-Nazaire, che l’italiana Fincantieri avrebbe acquisito da un tribunale fallimentare coreano – che l’aveva rilevata da un fallimento privato di un gruppo di quel Paese – con l’autorizzazione di François Hollande revocata da Macron tra i primissimi atti della sua presidenza. E ora l’Eliseo vagheggia una fusione alla pari cross border tra Fincantieri e Leonardo da un lato e Thales dall’altro, che ricollocherebbe in campo militare l’ago della bilancia gestionale, e dunque nelle più forti mani della Difesa francese.
È aperta la partita del controllo di Unicredit, da mesi nel mirino della Société Générale. È aperto il dossier dell’alleanza strategica Fca-Renault, che Parigi neanche si sogna possa gravitare attorno a una proprietà non solo italiana ma di qualunque bandiera diversa dal tricolore col blu. C’è la sistemazione del caso Tav. Sullo sfondo, perfino la lotta approssimativa e trafelata dell’ex sodale di Sarkozy Vincent Bolloré per prendere Mediaset e Telecom potrebbe attrarre la solidarietà pelosa di Monsieur le President.
A Parigi non si concepiscono pasti gratis per commensali italiani.