È il giorno di Giuseppe Conte, l’appuntamento nel quale l’avvocato del popolo esperto in mediazioni dovrà esibire tutta la sua abilità. È il giorno in cui sbrogliare la matassa del caso di Armando Siri, il sottosegretario leghista indagato per corruzione. Licenziarlo o no? Lasciare che l’unico provvedimento “punitivo” sia il ritiro delle deleghe deciso dal ministro Toninelli? Tirare a campare?
Il destino di Siri è il destino del governo. Fare prevalere la linea giustizialista dei grillini significa ghigliottinare l’esecutivo. Non rimuoverlo vuol dire avallare la scelta garantista di Matteo Salvini. Lasciare le cose come stanno, cioè tenere Siri nella compagine governativa però privo di deleghe, è l’artificio politico con cui si salverebbero capra e cavoli e si guadagnerebbe ulteriore tempo. Conte ha detto che doveva “studiare le carte” e un avvocato da par suo avrà svolto con grande diligenza questo compito.
La partita è complessa perché sono in gioco due visioni contrapposte del rapporto tra partiti e politica. Ma oggi in Consiglio dei ministri, oltre al caso Siri, approdano anche il decreto crescita, che il presidente Mattarella ha voluto fosse sottoposto a una seconda deliberazione, e il cosiddetto “salva Roma”, con la fine della gestione commissariale del debito della capitale il quale verrà trasferito allo Stato. Significa riaprire i cordoni della borsa per Roma, cosa che la Lega ha detto chiaramente che non intende fare, tanto più che la sindaca Virginia Raggi ha ricevuto un altro avviso di garanzia nei giorni scorsi. Ed è evidente che la Lega userà l’indagine su Roma come contrappeso all’inchiesta su Siri. “O tutti o nessuno, non ci sono comuni di serie A e altri di serie B”, ha detto Salvini da Pinzolo.
Nel governo la tensione è altissima, ma è anche chiaro a tutti che il rischio del “tutti a casa” non può essere corso a un mese dalle elezioni europee sulle quali tutti puntano forte: Salvini per consolidare il primato del suo partito, il M5s per recuperare il terreno perduto. In ogni caso, gli equilibri stessi del governo usciranno modificati dopo queste giornate, perché ormai Conte fa asse fisso con Di Maio, e non garantisce più quel gioco da equilibrista che vorrebbe Salvini. Cedere sulla questione morale è impossibile per i 5 Stelle, tanto più che sulla testa della Lega pesa una seconda spada di Damocle, quella del giovane Arata (figlio di un imprenditore sospettato di collusioni mafiose) assunto nello staff del sottosegretario Giorgetti. Ma nemmeno la Lega intende arretrare, anzi forza la mano per mettere Conte con le spalle al muro: sia garante di tutto l’esecutivo, non solo della parte che lo ha indicato per Palazzo Chigi.
Insieme con le carte del caso Siri, in questi giorni il premier ha studiato anche una “exit strategy” per il suo governo. Oggi dal cappello a cilindro del presidente del Consiglio uscirà il coniglio che metterà d’accordo (per così dire) i contendenti, com’è già capitato in questi mesi quando l’avvocato del popolo ha fornito la soluzione per placare le acque. Guadagnare tempo è la parola d’ordine. E lasciare che Salvini e Di Maio continuino la loro sanguinosa campagna elettorale. Tra un mese si vedrà.