Si era detto che il voto in Umbria fosse solo “locale”, però pochi giorni dopo il risultato si sono visti, uno dopo l’altro, un editoriale sul Corriere della Sera dello storico Enrico Galli della Loggia che interpretava le elezioni umbre come la vera fine della Prima Repubblica, il capo politico del M5s, Di Maio, che annunciava la necessità di dar vita a una nuova “terza fase” nella storia del movimento e il segretario del Pd, Zingaretti, che dichiarava la volontà di “rifondare” il partito con nuovo statuto e non escludendo anche un cambio del nome. Sembra cioè compromessa l’ipotesi del governo come laboratorio di un “fronte popolare” contro Salvini nelle future elezioni politiche. Del resto sia Renzi sia la Bonino si erano già dichiarati indisponibili a partecipare a un’alleanza elettorale con i 5 Stelle. E ora nei sondaggi – dopo il voto umbro – Lega e Fratelli d’Italia crescono mentre M5s e Pd scendono. Aumentano quindi tensione e confusione tra i partiti e nei partiti di governo.



Le ragioni della sconfitta umbra, al di là di analisi più complesse, riguardano in primo luogo la gestione confusa della manovra finanziaria che continua a cambiare anche dopo un testo inviato a Bruxelles come definitivo. I contenuti sono comunque giudicati insufficienti, di fronte a stagnazione economica e aumento della disoccupazione, sia dai sindacati sia dalla Confindustria. Nella maggioranza Di Maio e Renzi incalzano ancor più il premier contestando singole tasse, mentre Conte continua a negare di averle aumentate e il ministro dell’Economia (che è sì un accademico, ma in quanto storico dell’Istituto Gramsci) appare sempre più spaesato nel capitanare la quadratura del bilancio statale. C’è – si lamenta su La Stampa – “una maggioranza che sembra fare propaganda contro la propria legge di bilancio”. Ma alla contestazione di Renzi si aggiunge anche il presidente dell’Emilia-Romagna, Bonaccini, che avverte in riferimento alle prossime elezioni regionali: “La tassa sulla plastica la pagheremo qui”.



Il problema di fondo è che il governo era nato sulla base dell’accordo tra Pd e M5s, ma i due contraenti sono stati fortemente destabilizzati sin dall’inizio dell’esperienza: da un lato la scissione di Italia viva e dall’altro il premier che vuole diventare il nuovo leader dei grillini. È vero che tutti i partiti della coalizione sono contrari allo scioglimento anticipato delle Camere, ma la sopravvivenza è messa a dura prova se Renzi vuol strappare parlamentari a Zingaretti e Conte vuol strappare a Di Maio il controllo dei gruppi di Camera e Senato.

È così che gli italiani si trovano ogni giorno di fronte ad un’autentica sarabanda: Renzi contro Zingaretti-che appoggia Conte-contro Di Maio-che si allea con Renzi-contro Conte. Il risultato è una manovra economica che viene rimessa in discussione nel passaggio alle Camere e, comunque, senza né capo né coda.



Uno spettacolo imbarazzante, tutto giocato sulla pelle della politica economica, che suscita inevitabilmente incertezza e sfiducia. Per restituire stabilità occorrerebbe che Renzi e Conte cessassero di voler ridimensionare i leader dei due principali partiti della coalizione. È possibile? Che i due rinuncino alle proprie ambizioni di crescita, da come si muovono ancora in questi giorni, non sembra un’ipotesi realistica: deputati del Pd si vantano con i giornalisti di essere “i pretoriani di Conte”, ma intanto con il ministero del Lavoro in mano ai 5 Stelle “nell’ultimo anno e mezzo – denuncia il segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli – non c’è stata una vertenza, uno stato di crisi aziendale che è stato risolto dal governo”. Non bisogna dimenticare che il M5s ha teorizzato l’uso delle vertenze non per cercare soluzioni, ma per mettere “a ferro e a fuoco” l’Italia.

Ultimamente la maggioranza di governo ha tentato di recuperare terreno e consensi giocando la carta dell’antifascismo. C’è la commissione contro l’odio e l’antisemitismo. Bella cosa. Ma che credibilità ha questa iniziativa quando il principale partito di governo è notoriamente da dieci anni il protagonista delle peggiori campagne di odio sui social e i suoi esponenti – a cominciare dal fondatore Beppe Grillo – hanno ripetutamente dato prova di antisemitismo e di essere contrari non alla politica di Israele, ma al suo diritto di esistenza?

Da quando è nato questo governo l’intellettualità di sinistra e i leader del Pd si sono autocensurati: non pronunciano più le parole “antipolitica” e “populismo”, ma polemizzano solo con il “sovranismo”. Se si fa appello all’antifascismo avendo come alleato un dichiarato antagonista delle istituzioni rappresentative e della democrazia liberale si rischia di non essere molto credibili e di lasciare campo libero al neofascismo.  

A ciò si aggiunge il fatto che Zingaretti, impegnato a sostenere Conte, continua a fingere di non sapere che Palazzo Chigi ha collaborato con gli inviati di Trump per coinvolgere i precedenti presidenti del Consiglio del Pd. La relazione del ministro della giustizia William Barr sui due incontri romani sarà però prossimamente resa pubblica e comunque Barr ha già smentito la versione fornita da Conte al Copasir. Il primo incontro – ha dichiarato il ministro di Trump – è stato dedicato a “discutere preliminarmente come io intendessi gestire informazioni confidenziali” volte a “verificare” le eventuali complicità dei servizi italiani e del governo (cioè di Minniti e Renzi) nella “costruzione del complotto” nel 2016 contro Trump e che nel secondo incontro accompagnato dal procuratore John Henry Durham, Barr ha “stabilito” con i servizi italiani un “canale di assistenza” per dare la caccia al professore maltese Joseph Mifsud (che però secondo la magistratura italiana non ha commesso reati). Non stupisce che Matteo Renzi voglia un nuovo inquilino a Palazzo Chigi e non è escluso – a giudicare da come il leader di Italia viva ha intensificato gli attacchi personali a Conte – che la divulgazione della relazione Barr gli possa offrire utili argomenti sul piano istituzionale.