Nella politica italiana sembra di vivere sempre in un drammatico giorno della marmotta sempre uguale a se stesso. Cambiano le fasi politiche, cambiano i governi, cambiano le maggioranze, ma la giustizia rimane il tema su cui tutto può saltare.

Mario Draghi forse questo aspetto lo aveva sottovalutato. Non poteva certo immaginare che il suo forte esecutivo potesse davvero rischiare di saltare per aria su questa mina. Eppure è quello che sta accadendo. Le lancette corrono veloci, la luce in fondo al tunnel della mediazione capace di tenere insieme la sua coalizione d’emergenza che va da Grillo a Berlusconi ancora non si vede, nonostante gli sforzi di Marta Cartabia e del premier, in prima persona.



A Palazzo Chigi ha cominciato a materializzarsi il timore che possa davvero saltare tutto, visto che le spinte interne alla maggioranza sono contrastanti. A Giuseppe Conte e ai 5 Stelle che chiedono meno vincoli ai processi si contrappone l’asse fra Forza Italia e Lega, che non ci sta a vedere riscritta l’intesa votata in modo unanime in Consiglio dei ministri. E il blitz per ampliare il perimetro dell’improcedibilità all’abuso d’ufficio, respinto in commissione per un pugno di voti, fa capire che la coperta è dannatamente corta: o scopri la testa, oppure scopri i piedi.



E così, se Conte fa sapere che senza modifiche difficilmente i pentastellati voteranno la fiducia che Draghi minaccia di porre sul testo, per Lega e Forza Italia l’accordo votato con fatica in Consiglio dei ministri non si tocca, più in là non si può andare. Nonostante il sostegno di Mattarella, la riforma Cartabia è a rischio sul serio, e nessuno dotato di buon senso azzarderebbe oggi di chiedere un voto di fiducia che potrebbe anche non esserci. Pesano anche alcuni rilievi venuti dalla magistratura sulla coerenza complessiva della proposta e sulle sue conseguenze.

Certo, esiste anche la possibilità di vedere i grillini spaccarsi di fronte a un aut aut. Il governo si salverebbe, ma sarebbe più debole. E il Pd non sembra affatto intenzionato ad accettare una mossa che indebolisce il proprio alleato, consegnando al centrodestra la golden share del governo Draghi.



Approvare la riforma pensata per velocizzare i processi era sino a ieri una priorità assoluta prima della pausa estiva. A Palazzo Chigi veniva giudicato un segnale fondamentale da dare all’Europa. In assenza di uno straccio d’intesa, però, l’ipotesi di uno slittamento a settembre potrebbe finire per rivelarsi il male minore. La scusa è bell’e pronta: l’ingorgo di decreti legge che il parlamento deve varare prima delle ferie, onde evitarne la decadenza.

Certo, in assenza di un accordo il rischio è quello di rinviare la deflagrazione di un problema vitale per l’esistenza stessa del governo. Draghi rischia di impantanarsi sulla giustizia come Craxi, come Berlusconi, come Renzi. Rischia soprattutto di vedere il suo governo impantanarsi. Sinora ha saputo tenere la velocità iniziale assai meglio dei governi tecnici che lo hanno preceduto, Dini e Monti in particolare. Partiti a spron battuto, quei due esecutivi hanno visto esaurirsi ben presto la propria forza propulsiva e hanno finito per vivacchiare sino a spegnersi.

Davanti a Draghi ci sono però alcuni passaggi delicati. Il primo è il turno elettorale di ottobre, con una regione e oltre 1.300 comuni chiamati al voto. Una consultazione che ridisegnerà i rapporti di forza fra i partiti e dentro le coalizioni. Poi, a fine gennaio, il parlamento sarà chiamato a scegliere il successore di Mattarella. Sino a oggi Draghi sembrava fuori dalla contesa, di fronte alla necessità di continuare il lavoro di implementazione del Pnrr almeno sino al 2023. Persino Salvini sembrava rassegnato a questa idea.

Ma il logorarsi dei rapporti dentro la coalizione di unità nazionale, se non trovasse un freno, imporrebbe di riconsiderare tutto. La fine di questa esperienza potrebbe consistere proprio nella scelta di Draghi come capo dello Stato. A quel punto, però, la conseguenza inevitabile sarebbe il voto anticipato verso aprile 2022. L’ex numero uno della Bce al Quirinale costituirebbe una garanzia per tutti, anche per l’Europa. Ma il gioco politico oggi sospeso si rimetterebbe in moto all’improvviso. Sulla proposta Cartabia, insomma, si gioca molto di più di una semplice riforma della giustizia.

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