Ormai è una regolarità della politica nostrana: le voci di rimpasto si alzano ogni volta che l’incapacità del governo a decidere si fa più acuta e manifesta. E ogni volta tocca a Mattarella riportare alla realtà i litigiosi soci della coalizione giallorossa. Il metodo è ben noto, far trapelare attraverso i quirinalisti più accreditati tutte le preoccupazioni del presidente Mattarella, ricordando elementi basilari. Primo, che può essere consentita solo la sostituzione di uno, massimo due ministri che si dimettano spontaneamente. Secondo, che se si va più in là, serve un nuovo voto di fiducia delle Camere, quando non una crisi formale.
Ce n’è abbastanza per spaventare chi teme di scoperchiare un vaso di Pandora senza avere la forza politica di richiuderlo. Per il Quirinale lo spauracchio è l’assenza di governo. Quindi meglio un esecutivo debole che nessun esecutivo.
È un ragionamento che suona come musica alle orecchie del premier Conte, sempre più preoccupato di essere l’unico a pagare un eventuale rimpasto con la propria poltrona. A favore dell’operazione sono infatti coloro che mostrano insoddisfazione per il suo modo di governare, cioè Pd e Italia Viva, mentre si schierano contro Leu e grillini. Per la verità, fra le fila dei 5 Stelle c’è anche chi viene ormai marcato a vista per un attivismo sospetto. Si tratta di Luigi Di Maio, impegnato a darsi una nuova verginità di leader moderato al punto di lanciare una moltitudine di segnali verso un partito che sino a poco tempo fa per un pentastellato era l’equivalente del male assoluto, e cioè Forza Italia, oggetto di grande attenzione anche da parte dei democratici.
Di Maio ha incontrato a luglio Gianni Letta negli stessi giorni di un colloquio con Mario Draghi. Poi, in tempi più recenti ha avuto un colloquio con la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Da ultimo, proprio ieri, si è distinto per foga nell’impallinare senza tentennamenti l’idea di una patrimoniale, proposta dal democratico Orfini e da Leu. Da qualche tempo circola la voce secondo cui Di Maio stia coltivando il sogno di sostituire Conte a Palazzo Chigi. Premier di un governo con la maggioranza di ministri Pd e una qualche forma di sostegno azzurra, da cui l’attenzione per i temi cari a Berlusconi e company, con buona pace della retorica dello “psiconano”, tanto cara a Beppe Grillo.
Le ultime mosse di Di Maio, lette in quest’ottica, sembrano coerenti all’obiettivo di sedersi lui sulla poltrona di premier. Uno schema tutto politico, alternativo a quello spinto soprattutto dal mondo economico, che vorrebbe Draghi seduto al posto di Conte per gestire la fase del Recovery fund nello spirito di una nuova unità nazionale.
Naturalmente di rimpasti e di nuovi governi si può parlare oggi con libertà poiché è evidente che nulla di concreto può accadere prima del varo della legge di Bilancio. E questo nonostante che passaggi delicati nei prossimi giorni non mancheranno, come la discussione in Parlamento precedente al nuovo Consiglio europeo, dove potrebbero essere messe ai voti mozioni sul ricorso al Mes, che continua a vedere i 5 Stelle contrarissimi, insieme a Lega e Fratelli d’Italia, mentre Berlusconi, Zingaretti e Renzi sarebbero favorevoli.
Da Natale in avanti tutto diventa possibile. Con un sospetto tempismo quasi svizzero Conte ha fatto approvare in Consiglio dei ministri il riassetto dei collegi elettorali della legge esistente, il Rosatellum, sulla base del referendum sul taglio dei parlamentari. In teoria, al voto si potrebbe ora andare in qualunque momento, sino all’agosto prossimo, quando scatterà il semestre bianco di Mattarella. E un premier assediato potrebbe provocare un esito simile.
In pratica, lo scenario elettorale rimane il più improbabile, tutto il resto no. Varata la manovra, il problema di un rilancio dell’azione di governo si porrà con forza, con o senza rimpasto, o crisi. Anche l’ultima idea trapelata da Palazzo Chigi, di una task force di 300 esperti per gestire il Recovery Fund appare una sovrastruttura creata ad arte per nascondere l’incapacità strutturale dell’esecutivo a decidere, ed esautorare nel contempo il parlamento.
Se Conte a gennaio non saprà fare un deciso scatto in avanti, rischierà davvero la poltrona. Mattarella attende, e la preoccupazione al Quirinale aumenta.