C’è un fantasma che si aggira per i palazzi della politica romana, quello di Mario Draghi. È lo spettro che rende agitate le notti di Giuseppe Conte, e forse non solo le sue. Dal palco di Cernobbio il premier ha fatto di tutto per esorcizzarlo. Ma lo ha fatto in modo così sgangherato da ottenere l’effetto opposto, quello di manifestare tutta la sua debolezza.
Un sondaggio per verificare la disponibilità dell’ex presidente della Bce a un incarico europeo probabilmente ci sarà anche stato, ma dire che Draghi si è tirato indietro “perché stanco” fa sorridere: la discussione che ha portato alla scelta di Ursula Von Der Leyen si svolse negli ultimi mesi del governo gialloverde, e mai un candidato italiano, neppure Draghi, sarebbe stato accettato da Francia e Germania. E il primo a saperlo era lo stesso Draghi.
Conte è andato oltre, schierandosi a favore di un Mattarella bis al Quirinale. Endorsement totalmente non richiesto: non troppo presto, a 18 mesi dalla scadenza del mandato presidenziale, ma è ben nota la contrarietà del Capo dello Stato a un doppio mandato, nella scia di Carlo Azeglio Ciampi.
In realtà, dipingere Draghi come stanco e Mattarella come presidente anche dopo il gennaio 2022 fa parte di uno scenario in cui la centralità continuerebbe a essere riservata all’attuale premier. Uno whisful thinking di difficile concretizzazione. Destinato anzi molto presto a fare i conti con la realtà.
E la realtà ci parla di un premier indebolito, e di una maggioranza in perenne fibrillazione, che si avvicina ad almeno tre scadenze cruciali. La prima, in ordine di tempo, è la riapertura delle scuole: la sensazione è che il caos continui a regnare sovrano, e che i rischi di un fallimento non accennino a diminuire. Sarebbe un danno di immagine enorme se ci fosse una chiusura di scuole a raffica, o se dovessero mancare decine di migliaia di insegnanti.
Il secondo passaggio è politico: il combinato disposto delle elezioni regionali (e amministrative) e del referendum sul taglio dei parlamentari si presenta pieno di rischi. Conte assicura che non avranno conseguenze. E basta un pugno di voti in Toscana e Puglia per passare da un catastrofico 1-5 a un 3-3, che avrebbe il sapore calcistico di un pareggio in trasferta. Certo è che se le cose andassero male, nel Pd Zingaretti sarebbe a rischio, e nei 5 Stelle si aprirebbe un’imprevedibile resa dei conti interna. Il governo sbanderebbe paurosamente, basterebbe poco a mandarlo fuori strada.
Una crisi a fine settembre sarebbe la maniera peggiore per affrontare la terza sfida autunnale, la più importante per il paese, la presentazione all’Europa del piano nazionale per l’utilizzo delle risorse previste dal Recovery Plan. I lavori preparatori continuano nel massimo riserbo, e forse verrà utile il Piano Colao, come proprio sul Sussidiario ha spiegato Enrico Giovannini. Ma su quello si gioca il futuro, come con forza ha ricordato il presidente Mattarella. “I giovani giudicheranno come verrà usata questa irripetibile opportunità”, ha scandito il Capo dello Stato, che ha chiesto concretezza, lungimiranza e – soprattutto – tempi brevi.
Altri paesi hanno già presentato i piani nazionali, l’Italia si è dato il termine di metà ottobre, quindi non c’è tempo da perdere, ed è anche questa una ragione che depone contro l’apertura di una crisi all’indomani delle regionali. Contro anche l’idea del rimpasto: l’equilibrio è talmente fragile che ogni scossone potrebbe farlo saltare in modo definitivo. Se si apre una crisi anche solo per ritoccare la squadra di governo, il rischio è di non riuscire a chiuderla. Conte lo sa talmente bene, che sembra aver definitivamente riposto in soffitta l’ipotesi di un suo partito personale. Per il momento, almeno.
A detta della quasi totalità degli esperti delle cose del Palazzo, di elezioni non se ne parla come minimo sino all’elezione del successore di Mattarella (gennaio 2022). Ma che questo governo abbia la forza per arrivarci non è scontato. Sono 18 mesi da riempire di contenuti anche politici (Pd e 5 Stelle devono decidere se far diventare il loro fidanzamento governativo un matrimonio politico). Ma se qualcosa dovesse andare storto, allora davvero l’ombra di Mario Draghi potrebbe concretizzarsi dalle parti di Palazzo Chigi.