Il paragone più abusato è quello del brutto anatroccolo diventato un principe. È il destino spalancatosi davanti a Giuseppe Conte, fino a metà agosto vaso di coccio tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, poi trasformatosi nel salvatore della patria che riesce a tenere insieme Pd e M5s. Nei giorni della crisi il premier dimissionario ha subito una prima metamorfosi, quella che l’ha portato da essere il triste arbitro con l’unico potere di suonare il gong per separare i contendenti, a uomo della provvidenza in grado di assecondare i partner europei, i mercati, le Ong, i nemici di sovranisti e populisti. Insomma, Conte è il nuovo garante di un’Italia che vuole uscire dall’isolamento in cui il governo gialloverde (peraltro presieduto da Conte medesimo) l’aveva precipitata.



Ma in questi giorni il presidente del Consiglio ha subito una seconda evoluzione. Per dirla con un vecchio motto di Silvio Berlusconi, che non a caso si è unito al coro che ne canta gli elogi, Conte ha imparato a farsi “concavo e convesso” a seconda dell’interlocutore. Passa con disinvoltura dalla Cgil di Landini alla festa di Giorgia Meloni, dai salotti radical chic di Liberi e uguali al vertice dell’Onu, parla di nuove tasse con la sinistra e di taglio del cuneo fiscale con gli imprenditori, gestisce con consumata diplomazia i rapporti internazionali. E dicendo tutto e il contrario di tutto, ha imparato anche a contraddirsi senza che nessuno eccepisca: aveva detto che non sarebbe stato un uomo per tutte le stagioni ed eccolo muoversi per accontentare tutti.



Che cosa manca a Giuseppe Conte? Un dettaglio non trascurabile in democrazia: la legittimazione popolare. Gli unici voti che ha strappato finora sono quelli di fiducia in Parlamento. Il suo nome non è apparso su nessuna scheda elettorale. Ma oggi il consenso che conta non si trova nelle urne: va conquistato nelle cancellerie e negli scacchieri internazionali, quelli che Salvini ha pervicacemente ignorato in nome del popolo italiano.

D’altra parte, il premier non ha bisogno di fare come Mario Monti, altro premier non eletto dal popolo, che per sperare di restare sulla breccia dovette costruirsi un partito. Conte un partito ce l’ha già, anzi un movimento, ed è il M5s. Una realtà in crisi di identità, in perdita di consensi, divisa tra diverse anime, che soltanto un mediatore di professione come Conte potrebbe tenere ancora assieme. Di Maio, Di Battista, Fico e gli altri sono tutti spariti: giganteggia solo Conte, il nuovo leader. Il suo disegno è quello di prendere in mano il movimento e normalizzarlo, trasformarlo definitivamente da voce della protesta a perno centrista del sistema, pronto a governare con chiunque (tranne Salvini) pur di essere non l’ago della bilancia quanto la bilancia stessa.



Ma nella sua ambizione sulla quale ormai non tramonta mai il sole, Conte si è già posto un altro obiettivo: essere l’anello di congiunzione tra il M5s e il Pd, il perno su cui far girare questa maggioranza da consolidare facendo avvicinare le due realtà fino a farle coincidere. Sarebbe la sintesi dei desideri dei partner europei, e Conte non ha intenzione di sottrarsi.