Qualche giorno fa, a domanda di una giornalista sulla nascita del suo partito, Giuseppe Conte ha detto che ciò avviene a sua insaputa. Nel palazzo tutti ne parlano, i sondaggisti lo quotano come il Varenne dei tempi d’oro, lo spauracchio agita i sonni del Pd e del M5s: eppure al momento il partito di Conte, che secondo voci ricorrenti da mesi avrebbe pure un nome dotato di scarsissima fantasia (“Con-te”), è una realtà puramente virtuale.
Dunque, il premier non ha tutti i torti quando dice che ne ignora l’esistenza. Ma lui non fa nulla per smentirne la formazione, né interviene per zittire le voci. Magari è proprio così, il presidente del Consiglio si terrà il Con-te per sé. E poco importa che la storia riecheggi un altro capo del governo come Mario Monti, che arrivò a Palazzo Chigi come estraneo ai partiti ma nell’arco di 12 mesi ne avvertì una tale mancanza da volerne fondare uno, peraltro largamente sopravvalutato dai sondaggi come è assai probabile stia accadendo anche con il premier attuale.
Conte non frena le voci di corridoio perché a lui, in realtà, non serve un partito: gli basta la minaccia di costituirlo. È il frustino con cui sta tenendo a bada la sua traballante maggioranza, il bluff che nessuno ha il coraggio di vedere. Lo spettro di Con-te turba i sonni del Pd, che rischia di tornare sotto il 20%, e preoccupa pure il M5s più governista, quello legato a Grillo e Di Maio. Il partito di Conte si candiderebbe come il vero cardine della governabilità in Italia e i “responsabili” che ora appartengono a varie forze di maggioranza troverebbero una casa naturale ad accoglierli.
Non è detto che questo partito debba avere un programma né un organigramma: gli obiettivi sono le eterne promesse fatte in questi ultimi mesi e i discorsi sentiti agli Stati generali. Lo scopo è galleggiare, tenere gli alleati in pugno e tirare a campare. Perché nel mirino di Conte c’è un bersaglio grosso, nientemeno che il Quirinale. E a lui basta tenere duro per un altro anno appena, visto che il semestre bianco nel quale il capo dello Stato non può sciogliere le Camere (e quindi mandare a casa il governo) scatta il 31 luglio 2021.
Due anni fa Conte era un novellino della politica, poi ha fatto il mediatore tra i due galli Di Maio e Salvini, infine si è ritagliato il ruolo di galleggiatore. E ha imparato che la sua forza sono le debolezze altrui. Il premier sa che, se reggesse un altro anno, arriverebbe al voto parlamentare per il Colle con buone possibilità: lo sosterrebbe il Pd, che finalmente conquisterebbe Palazzo Chigi, e naturalmente il M5s visto che è un suo uomo. Silvio Berlusconi potrebbe ritentare l’operazione del 1999, quando votò Carlo Azeglio Ciampi liberandosi di un presidente ostile come Oscar Luigi Scalfaro e garantendosi un occhio di riguardo dal nuovo inquilino del Quirinale.
È chiaro che Conte non ha fatto i conti con le ambizioni di altri aspiranti presidenti, e forse anche con gli interessi dei partner europei che riconfermerebbero subito Sergio Mattarella. Il quale è costretto a tenere Conte a Palazzo Chigi per non dare segnali di cedimento della situazione politica italiana: in realtà, le preferenze del Colle per la guida del governo ricadrebbero su ministri come Franceschini o Guerini. Ma lo stallo fa senza dubbio il gioco di Conte. Che usa ogni mezzo, dalle passerelle di Villa Pamphili fino allo spauracchio di un suo partito personale, per farsi trovare in prima fila quando scatterà davvero la corsa verso il Colle.