Dapprincipio era la foto di Bologna, con Salvini e Meloni riabbracciati al vecchio Silvio, di nuovo leader di una sorta di centrodestra mignon, tenuto insieme con la ceralacca dell’impegno che la leadership sarebbe andata al partito più forte. Poi vennero le elezioni del 2018, Salvini vinse la gara ma si rifiutò di fare un tentativo di formare il governo, anzi si accomodò nel patto coi 5 Stelle, dopo aver incassato un mezzo sì di Meloni e Berlusconi.



Il resto è cronaca recente:la fine del primo governo Conte, la giravolta di “Giuseppi”, il trio bolognese ricacciato all’opposizione fino al 2023.

In teoria dovrebbe giovarsene la compattezza del centrodestra: all’opposizione cosa avranno da litigare i tre leaders? Macché. Non c’è un giorno di tregua nella lotta per il controllo della coalizione che potrebbe vincere le prossime elezioni politiche.



La lotta in verità è tra Salvini e Meloni (Berlusconi è fuori gioco, glielo dicono i sondaggi, e lui per primo lo sa). Salvini e Meloni si sono prima contesi estremisti di destra e intellettuali no euro, marcando entrambi un territorio di destra-destra connaturato alla Meloni e presidiato più recentemente da Salvini.

Ora però entrambi i quarantenni rampanti si sono accorti che l’ottantenne Silvio non porta più molti voti al centro: con Forza Italia al 6 per cento, che centrodestra sarà mai senza il centro?

E allora Salvini e Meloni iniziano a contendersi il centro. La contesa a destra è stata facile: vittime di ostracismi storici, i capetti della destra accorrono a qualsiasi chiamata, e il fatto che ce ne fossero addirittura due li ha ringalluzziti. Al centro è un’altra storia; ognuno si sente capo di un partito o di una corrente che coincide quasi sempre con la propria persona.



Ma la partita del futuro è tutta lì, nei territori grigi e sfumati in cui affondava le radici la vecchia Dc e l’invecchiata Forza Italia: il voto cattolico, le partite Iva, la rete più o meno civica delle amministrazioni e dei notabilati locali.

La lotta è serrata, Matteo e Giorgia hanno strategia diverse: la Meloni punta sul dialogo con la segreteria di Stato vaticana, nuovamente attenta ai destini delle destre, e più che mai sbilanciata a favore della Meloni nella disfida col giovin padano; a far da ponte tra Giorgia e i sacri palazzi c’è la schiatta democristiana di Fratelli d’Italia, da Crosetto a Fitto, con qualche referenza buona persino di Gianni Letta, la cui parola oltretevere vale ancora tanto.

Salvini spiccia la pratica centrista con pragmatismo lombardo: niente dialogo con la Chiesa ufficiale, semmai strizzatine d’occhio ai cattolici reazionari nostalgici di Ratzinger. Lui il suo centro ce l’ha, e si chiama Forza Italia. Dall’interno dei gruppi parlamentari molti assicurano a Matteo che i resti dell’un tempo invincibile armata azzurra saranno tutti per lui. Capo delegazione dei forzisti padani è la senatrice Ronzulli, voce narrante del sempre più potente avvocato Niccolò Ghedini, in predicato di sostituire Confalonieri alla guida di Mediaset.

La disfida dei due quarantenni è stata bruscamente interrotta da un sussulto d’orgoglio del vecchio Silvio che si è messo a dialogare col governo, a supportarlo nell’emergenza sanitaria. Inizialmente Meloni e Salvini hanno provato a spingere Berlusconi fuori dal centrodestra, ma poi i sondaggi hanno iniziato a segnalare una ripresa di Forza Italia, e allora hanno preferito imbastire un vertice di centrodestra in cui con Silvio hanno convenuto di dialogare tutti assieme col governo sullo scostamento di bilancio.

I bene informati dicono che la sola cosa che unisce i due leaders è l’angosciosa domanda: ma questo Berlusconi è finito davvero, o nel cammino tra emergenza e Quirinale ci riserva l’ultima sorprendente resurrezione? Entrambi sanno che in questo caso le due destre avranno davanti a se un cammino molto accidentato.