Fra molti temi sventolati da Enrico Letta per marcare l’identità del suo Pd e la distanza dal centrodestra, ce n’è uno che sembra un amo lanciato a Salvini, e che potrebbe svilupparsi nei prossimi mesi. Sulla legge elettorale si registra la maggiore discontinuità con Zingaretti, anche se il no al proporzionale sorprende solo chi dimentica la formazione ulivista del nuovo leader democratico.
Una revisione in senso proporzionale dell’attuale Rosatellum era compresa nel patto giallorosso che aveva portato al varo della riforma costituzionale che ha tagliato di un terzo il numero dei parlamentari. Era un modo di rispondere all’espansione abnorme dei collegi uninominali conseguente al taglio: a Montecitorio si passa da 232 a 147 deputati eletti direttamente, a Palazzo Madama da 116 a 74. Nel caso del Senato molti collegi uninominali saranno talmente grandi da contenere due province e più. Si trattava però anche di un modo dichiarato apertamente per rompere la solidarietà del centrodestra, e spostare indietro le lancette della storia: consentire a tutti di correre in solitaria per fare poi accordi successivamente, in parlamento, come all’epoca della prima repubblica. Una via per limitare una probabile vittoria del centrodestra, se non il percorso per staccare Forza Italia dagli alleati storici, confinando Meloni e Salvini all’opposizione.
L’intesa su cui faticosamente stavano lavorando in parlamento era chiamata “Brescellum” dal nome del presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, il grillino Brescia, e prevedeva ripartizione proporzionale dei seggi e soglia di sbarramento al 5%. Un dettaglio, quest’ultimo, che ha indotto Italia viva a mettersi di traverso, preoccupata di non raggiungere tale soglia.
Letta spazza via questo dibattito, anche se 5 Stelle, Leu e Sinistra italiana si schierano immediatamente contro un ritocco a una legge che sia tendenzialmente maggioritaria. C’è da capirli: il maggioritario produce la bipolarizzazione del sistema politico, costringe alle alleanze prima del voto. È questa l’esca lanciata a Salvini, un sistema che obblighi i suoi alleati, Meloni e Berlusconi, a non fare corsa solitaria.
Ma a che prezzo Salvini incasserebbe questo risultato? La proposta dem è ancora in fase di elaborazione, ci lavorano Stefano Ceccanti e Dario Parrini. Per quel che se ne sa, lo schema prevede un doppio turno eventuale, meccanismo che ha sempre sfavorito il centrodestra. Vince a livello nazionale il partito, o la coalizione, che raggiunge il 40% dei voti validi (e non degli elettori), una soglia altissima. Al ballottaggio vanno i due più votati, ma chi prevale riceve solo il 55% dei seggi. Una maniera elegante perché nessuno stravinca e possa da solo cambiare la Costituzione o eleggersi in futuro il presidente della Repubblica, anche se tutto questo potrebbe avvenire non prima del 2029.
Ci sono ancora un sacco di dettagli da definire, a cominciare dalle preferenze (sì o no?), e dalle soglie di sbarramento (3 o 5%?). E si sa, il diavolo è sempre nascosto nei dettagli. In più aprire la discussione sulla legge elettorale finirà per intersecare temi di rilievo costituzionale, come l’abbassamento dei diritto di voto a 16 anni per la Camera e a 18 per il Senato (se ne dovrebbe parlare entro aprile in Parlamento, secondo Brescia). Non si dimentichi anche la spinta per il voto ai “fuori sede”, tema cavalcato soprattutto dai pentastellati.
Sarà il faccia a faccia fra Letta e Salvini (al leader dem mancano solo il leghista e l’arcinemico Renzi) a dirci qualcosa di più sulla praticabilità di un tavolo sulla legge elettorale. Senza la Lega il dibattito non ha alcuna possibilità di decollare. Si conti anche che il tempo è poco: meno di due anni, se si immagina una conclusione naturale della legislatura, nella primavera del 2023; nove mesi se – con maggiore realismo – si prende in considerazione la possibilità che questo quadro politico non sopravviva all’elezione del successore di Mattarella, chiunque egli sia, nel gennaio 2022.
Del resto, una vecchia regola della politica è che la legge elettorale si cambia quando le elezioni sono imminenti. È sempre andata così (1993, 2005, 2017): se le regole cambiano è perché c’è qualcuno che pensa che gli convengano e ha fretta di usarle. Di solito, però, porta male. In Italia chi ha cambiato la legge elettorale convinto di trarne un vantaggio, è sempre stato beffato dal voto. Letta è avvisato.
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