Alla vigilia dell’incontro a Palazzo Chigi fra Draghi e il suo predecessore Conte la tensione si è impennata all’improvviso sul tema della riforma della giustizia. Il “non lasceremo cancellare le nostre riforme” pronunciato dall’ex premier presentando sabato il nuovo statuto del Movimento 5 Stelle è stato seguito da parole di fiducia di Letta sulla possibilità che si trovi un’intesa.



Subito nell’anima moderata della coalizione si è acceso l’allarme rosso. Perché il testo uscito faticosamente dal Consiglio dei ministri è considerato già di suo il massimo di mediazione possibile. Non si dimentichi che i ministri di Forza Italia avevano masticato amaro e chiesto una sospensione della riunione. Quindi, riaprire la discussione sulla riforma della prescrizione targata Cartabia significa correre il rischio che tutto salti. E, visto che in quel Consiglio dei ministri Draghi avrebbe minacciato le sue dimissioni se non si fosse arrivati ad un’intesa, la tensione è a livelli mai visti dalla nascita dell’attuale governo.



Quello sulla giustizia sarà un passaggio chiave. Il tempo stringe, si andrà in aula venerdì. Se Letta offre una sponda a Conte si troverà di fronte il muro di Forza Italia, Italia viva e probabilmente anche Lega. Draghi non sembra intenzionato ad arretrare su una norma considerata fondamentale nell’ambito del Recovery Plan, che ci chiede certezza dei tempi della nostra lentissima macchina giudiziaria. Anche Marta Cartabia in questa partita si gioca moltissimo, forse persino una prospettiva di salita verso il Quirinale.

Mentre su Roma scendono le prime ombre della sera il tam-tam dei palazzi riporta notizie di pentastellati al lavoro per mettere a punto emendamenti tesi a stravolgere la riforma Cartabia, e in parallelo di un Draghi infuriato con Letta. Nel loro recente colloquio le intese erano ben diverse, non certo tenere bordone ai grillini. È accaduto la scorsa settimana anche sul decreto semplificazioni, con l’approvazione di un emendamento che consente al parlamento di stoppare le opere strategiche. Un voto giallorosso in commissione che il ministro della Transizione ecologica Cingolani giudica un’imboscata a suo danno.



La bomba giustizia scoppia anche per via di due partiti profondamente divisi al loro interno. Dentro M5s l’ala governista che fa capo a Di Maio viene messa alle corde dalle intenzioni bellicose di Conte. Al Nazareno intanto cresce la sensazione che Letta si stia giocando il tutto per tutto fra candidatura a Siena e linea dura sul ddl Zan. Quest’ultimo non fa parte del perimetro delle questioni di governo, ma avvelena i rapporti all’interno della maggioranza che sostiene Draghi. Per di più, rispondendo picche ai reiterati inviti di Salvini a una mediazione sul testo che dovrebbe combattere l’omofobia, il segretario dem si assume il rischio di rimanere con un pugno di mosche in mano: o la proposta scivola verso il rinvio all’autunno, oppure rischia di finire impallinato con il voto segreto, in un Senato dai numeri incerti. Ad alcuni fra i maggiorenti dem è venuto persino il sospetto che il fallimento totale del ddl Zan sia un’ipotesi che non dispiacerebbe poi troppo a Letta, che potrebbe aggiungere questo capitolo alla sua costante campagna di martellamento di Salvini e della destra.

Non che il leader della Lega se la passi tanto meglio, dal momento che sente sempre più il fiato sul collo di Giorgia Meloni. Ma in questa fase il Carroccio sembra essere il partito più “draghiano”. Del resto, che la via del governo si dovesse fare sempre più difficile all’arrivo delle scelte di merito era stato messo in conto dal premier. È accaduto così anche per gli altri governi tecnici della storia repubblicana, in particolare Dini e Monti, che persero di slancio molto presto, dopo avvii sprint. Da questa consapevolezza discende la determinazione di Draghi a non rallentare. Il lavoro sul Pnrr è solo impostato, e questa è la fase in cui devono essere approvate le riforme strutturali che devono accompagnare il piano nazionale, secondo quanto richiesto da Bruxelles. La giustizia è una delle più importanti, non si può fallire. In parlamento ci sono in questo momento ben nove decreti legge in attesa di conversione, tutti considerati importanti. Bisogna correre, non frenare. Chi si mette di traverso, rischia di pagare un prezzo politico molto salato.

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