L’ultima di Enrico Letta è contenuta in un’intervista a Sette, supplemento del Corriere della Sera. Il segretario Pd racconta di quando andò a Lourdes: “Lì ho capito che anche per la Chiesa è arrivato il momento di aprirsi e valorizzare le donne, fino a pensare al sacerdozio femminile”. Letta teologo, ovviamente progressista, ci mancava. È l’ultima rivendicazione in tema di diritti: dopo lo ius soli, il disegno di legge Zan e la scure sui patrimoni in eredità, ecco le donne prete. C’è da chiedersi perché Letta, che da capo del governo si era distinto per un moderatismo incolore, ora abbia assunto un profilo così divisivo.
Il caso più eclatante è quello della riforma fiscale. Perché insistere sulla tassa di successione per favorire la dote ai diciottenni quando il premier ti ha già stroncato in malo modo? Mario Draghi ha tagliato corto in conferenza stampa e a Letta l’ha ripetuto in una telefonata piuttosto tesa. Ma il segretario del Pd ha insistito: “Io non mollo”, ha detto prima che molti altri esponenti Pd ripetessero su giornali e tg la bontà della sua proposta fiscale. Se Matteo Salvini avesse fatto lo stesso sulla flat tax, sarebbe scoppiato un pandemonio. Invece è successo che il leader leghista ha abbozzato mentre Letta ha tirato dritto nello scontro con Draghi.
È chiaro che con questo governo la patrimoniale sulle eredità non passerà mai. Eppure il segretario Pd insiste a ritagliarsi un’immagine molto identitaria, poco attenta ai bisogni concreti degli italiani in questo momento ma funzionale a segnare le distanze sia da Draghi sia dal centrodestra. La tattica è atipica, come confermano i sondaggi che ormai vedono il Pd surclassato anche da Fratelli d’Italia, e pure controproducente visto che nel partito crescono i malumori verso quello che doveva essere il salvatore della patria dopo il fallimento dell’appoggio zingarettiano al M5s. Ed è una scelta sorprendente soprattutto perché questa strategia della tensione viene da un europeista convinto, uno cresciuto alla scuola di Prodi e Andreatta, rifugiatosi nelle accademie di Parigi dopo essere stato estromesso da Palazzo Chigi. Uno che, in nome della coesione europea, dovrebbe schierarsi tra i “draghiani” a vita, mentre non passa giorno senza che Letta crei un problema al premier.
C’è in lui la voglia di marcare il territorio, di differenziarsi dal centrodestra di governo, di recuperare le battaglie per i diritti. C’è pure un po’ di nostalgia dell’esecutivo giallorosso con la speranziella ancora non sopita di guadagnare un po’ di consensi grillini. Ma in Letta c’è anche un disegno preciso di logorare Draghi. Il leader del Pd vuole far pesare l’appoggio dei democratici a un premier che non è mai stato la loro prima scelta per Palazzo Chigi. Lo tiene sulla corda perché, anche se l’ex presidente della Bce alza il telefono e parla direttamente con tutte le cancellerie europee, in Italia non può far finta che i partiti non esistano. E gli ricorda, giorno dopo giorno, che lui sarà senz’altro un fuoriclasse, ma senza i mediani che portano palla in Parlamento nemmeno uno come Draghi può segnare troppi gol. Letta vuole marcare stretto il presidente del Consiglio e per questo commette parecchi falli. Fuor di metafora, insiste a presentare un programma di interventi diverso dall’agenda Draghi. Ma la strada per il Recovery è ancora lunga, le comunali sono vicine, le elezioni per il Quirinale un po’ meno. Va a finire che a logorarsi per prima è proprio la segreteria di Letta.
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