Alla fine è prevalsa la vecchia scuola, quella democristiana, nella quale uno come Giuseppe Conte avrebbe trovato il suo spazietto. La scuola che risolveva i problemi politici con una verifica. Lui preferisce chiamarla ricognizione. Il presidente del Consiglio comincerà a vedere i partiti di maggioranza già la settimana prossima e tirerà le somme dopo Natale, assieme al voto finale sulla legge di bilancio. Qualcuno lo chiama già il “patto di San Silvestro”. Forse sarà il botto più clamoroso dell’anno nuovo.



Un tagliando al governo è ormai inevitabile. Da un lato c’è la situazione drammatica dei numeri al Senato: è vero che mercoledì la riforma del Mes è passata con un margine tranquillo (156 sì contro 129 no), ma la maggioranza assoluta a Palazzo Madama è di 161 voti. E comunque un conto è un voto “di responsabilità” sul quale si può chiedere una convergenza più ampia, un altro è esprimersi sui provvedimenti più politici. Dall’altro lato, c’è lo strappo di Matteo Renzi, la cui pattuglia è il vero ago della bilancia al Senato. L’ex rottamatore potrebbe anche non fare cadere il governo sui due punti per lui irrinunciabili (la revisione della governance del Recovery Plan e la rinuncia di Conte alla delega sui servizi), ma la guerriglia è ormai quotidiana: l’intervista renziana al quotidiano spagnolo El País nel bel mezzo del vertice di Bruxelles suona come un ceffone internazionale. Ogni giorno scoppia una mina lungo il sentiero di Conte.



Il premier dovrà tirare fuori il meglio del suo repertorio di mediatore, perché dietro a Renzi si stanno accodando tutti nel fare esplodere il malcontento verso l’uomo di Palazzo Chigi che vuol fare tutto da sé. Nel Pd il nervosismo è sintetizzato dal vicesegretario Andrea Orlando, per il quale ormai “è inutile negare che Conte ha fatto errori”. Nella frangia di Leu anche Roberto Speranza attacca per le incertezze di Conte sulle chiusure delle festività, un tema sul quale il capo del governo è stato rimproverato perfino da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, organo ufficiale di Palazzo Chigi.



Sono tutti contro Conte, ma non è l’opposizione: sono i suoi alleati. E toccherà al presidente del Consiglio, non ad altri, decidere se procedere a un piccolo rimpasto o andare a un nuovo governo. Nel primo caso si dimetterà qualche ministro, nel secondo l’intero esecutivo. Il Quirinale, ligio alle regole, preferirebbe un passaggio parlamentare per una crisi pilotata, ma tutti, a cominciare dal pilota del Colle, sanno che con Renzi di mezzo sarebbe una crisi mezza al buio. Visto l’immobilismo di Conte e la prudenza di Mattarella, verrebbe da scommettere su un’ipotesi minimale: governo pressoché immutato, ridimensionamento della task force sul Recovery, e braccio di ferro sulle altre nomine. Cioè i vertici delle forze dell’ordine, dei servizi segreti, delle grandi aziende di Stato, della Rai.

A nessuno conviene andare a elezioni anticipate, nemmeno al centrodestra. Matteo Salvini l’ha fatto capire chiaramente. Giorni fa si è detto disponibile a un governo di emergenza. Ieri ha fatto un altro passo: “Prima si vota meglio è, ma non con gli ospedali pieni”. Considerando che fra sette mesi si aprirà il semestre bianco in cui non si potranno sciogliere le Camere, significa che il leader della Lega si sta rassegnando a un’altra strategia, quella di aprire un dialogo con il governo e partecipare all’elezione del nuovo capo dello Stato. E se il voto politico si allontana, Conte si rafforza.