Un mese dopo la resa di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi è quasi impossibile non notare un effetto-fotocopia – o un gioco di specchi – nel getto della spugna di Nicola Zingaretti al Nazareno. Il leader Pd aveva scommesso tutto sull’“avvocato del popolo”, sostenendolo fino all’ultimo istante: quando il Presidente della Repubblica dem e il presidente della Camera “esploratore” per M5s avevano già dato segnali chiari di considerare inevitabile il cambio di governo. Ma Zingaretti ha puntellato Conte – puntellando se stesso – anche dopo: quasi associandosi, nell’ultimo mese, al tentativo di resistenza postuma dell’ex premier contro l’ascesa dell’unità nazionale di Mario Draghi. L’uno e l’altro – i due veri “soci” della joint venture giallorossa – alla ricerca di una difficile sopravvivenza: Zingaretti da subito minacciato alla segreteria Pd; Conte via via costretto a imboccare una sola way-out personale: come nuovo segretario di M5s.
Meno di un mese dopo il giuramento del governo Draghi, Zingaretti è dimissionario e Conte è ancora ben lontano dall’assumere la guida di un partito che si sta sciogliendo come neve primaverile. Due autogol gemelli, forse evitabili e forse no: il pallone, comunque, è finito in entrambi i casi in fondo al sacco e i gol (a vantaggio avversario) sono stati convalidati.
Zingaretti, chissà, può forse sperare di riagguantare almeno il pareggio in un secondo tempo molto ipotetico (ma ha già lasciato intendere di non voler neppure scendere in campo all’assemblea Pd del prossimo 13 marzo); oppure di risalire in classifica nelle prossime partite del campionato-legislatura in corso. Per Conte, invece, difficile che se ne parli prima del prossimo voto: e non è facile predire con la casacca di quale club potrà giocare e in quale ruolo.
A tre anni esatti dal voto 2018 la palla è di nuovo al centro del campo: nelle mani di un premier arbitro, che non sembra intenzionato a concedere più di un’amichevole, se non addirittura un semplice allenamento. È comunque sotto gli occhi di tutti che la maggioranza giallorossa – frutto anche di un clamorosa espulsione della Lega dalla precedente maggioranza gialloverde – ha buttato alle ortiche l’esito delle confuse mischie dell’estate 2019. Matteo Salvini, reduce da una vittoria iniziale nelle trasferta dell’euro-voto, aveva poi osato indubbiamente troppo in attacco e – complice anche qualche svista arbitrale – era stato infilzato dal contropiede del Pd (nel quale però Matteo Renzi era ancora in squadra a fianco di Zingaretti, nominato da poco capitano).
Il resto è cronaca: neppure l’emergenza Covid è riuscita a dare alla ex maggioranza M5s-Pd-Leu una parvenza diversa da quella di un poltronificio e di comitato di gestione degli affari di governo, peraltro mai neppure portati a termine: emblematici i casi Autostrade e Mps. Ma emblematico su tutto è l’annuncio di un’iniziativa Occupy-Pd da parte delle redivive Sardine: proprio quando Zingaretti lamenta, con toni tardo-maoisti, un “bombardamento del quartier generale” del Nazareno.