E adesso caro Salvini, come la mettiamo? Gli italiani, che già (come concordano tutti i sondaggi) non riescono a capire i motivi della crisi aperta dal leader leghista, ora si chiedono quale sarà la sua strategia per i prossimi mesi oltre che agitare la piazza e urlare al complotto europeo. L’ex ministro dell’Interno potrebbe trarre qualche idea ricorrendo al recente passato. Alla fine del 1994 proprio la sua stessa Lega, allora guidata da Umberto Bossi, segò il ramo su cui era seduta e fece cadere il governo di cui era parte. Un anno di governo Dini consentì alla “gioiosa macchina da guerra” del Pds di riorganizzarsi e vincere nel 1996 con il neonato Ulivo di Romano Prodi. Un bel harakiri per il Senatur.
Il defenestrato Silvio Berlusconi intraprese la famosa “traversata del deserto” che culminò in due eventi: l’entrata nel Partito popolare europeo e l’accordo sul nome di Carlo Azeglio Ciampi come capo dello Stato al posto del mal sopportato Oscar Luigi Scalfaro. Il primo passo del Cavaliere, in altre parole, fu di allacciare rapporti internazionali che prima non aveva, e di farsi accettare dalle cancellerie europee come interlocutore. Non di esserne succube, come avrebbe dimostrato la seconda defenestrazione del 2011, ma di essere trattato come un leader con pari dignità.
Questo a Salvini è mancato, ed è stato un suo errore. Disertare i vertici internazionali, saltellare tra Mosca e Washington, insultare sistematicamente i partner europei è stata una politica che ha contribuito a isolare l’Italia. Il culmine dell’isolamento leghista è stato evidente a tutti quando si è trattato di rinnovare le eurocariche. Salvini con il suo 35% si è arroccato sull’Aventino, mentre il M5s con la metà dei voti è entrato nel cuore del potere europeo, è stato determinante per l’elezione di David Sassoli a presidente dell’assemblea di Strasburgo e di Ursula von der Leyen a numero 1 della Commissione Ue. E ora al posto dell’insopportabile francese Pierre Moscovici siede il pacifico Paolo Gentiloni che sicuramente sarà molto più indulgente con il governo italiano pieno di amici suoi.
È la lezione che capì perfino Berlusconi: per cambiare le cose bisogna starci dentro, non fuori. Le piazze fanno vincere le elezioni ma poi non aiutano ad affrontare seriamente i problemi. Il Cav ricucì con Bossi e poi votò Ciampi, e fu una scelta saggia: quando salì al Quirinale per ricevere l’incarico nel 2001, Berlusconi non incontrò una figura ostile come Scalfaro, ma un presidente che gli doveva qualcosa. Da soli non si va da nessuna parte; è la legge della politica, oltre che della vita. Le richieste di “pieni poteri” mettono soltanto paura, mentre un dialogo e un lavoro comune moltiplica le forze. La parabola del leader di Forza Italia è finita come sappiamo, ma il metodo di certe scelte rimane.
Ora Salvini è davanti allo stesso bivio: tirare dritto da solo per trarre il massimo profitto per sé e il proprio partito, oppure cercare di coagulare un consenso più ampio. È una scelta cruciale per il futuro del Paese. La Lega resta il primo partito ma qualcosa ha perso facendo allontanare i “pieni poteri”. Sembrano tuttavia svaporare anche i mezzi poteri. Pensiamo a quanto accadrà nei prossimi mesi, quando si voterà in alcune Regioni chiave, cioè Emilia-Romagna, Toscana, Umbria: ciò che resta del potere rosso antico nel cuore d’Italia. E poi Liguria, Campania, Puglia, Veneto.
Prendiamo il caso dell’Emilia, dove si vota prima (forse a novembre, al massimo a febbraio) e dove i sondaggi indicano un grande equilibrio tra centrosinistra e centrodestra. Se il Pd perdesse, il giorno dopo cadrebbe il governo. Ma immaginiamo che si consolidi il patto Pd-M5s in funzione anti Salvini e che Di Maio e Zingaretti trovino un candidato comune vincente: a uscirne pesantemente ridimensionata sarebbe proprio la Lega. Idem per le altre Regioni, con un effetto domino. Che Salvini potrebbe evitare riallacciando il dialogo con Fratelli d’Italia e ciò che resta di Forza Italia.