Poi dice che uno diventa dietrologo. Ma per forza! È mai credibile che Luigi Di Maio – per il quale un’intervista televisiva in più o in meno cambia quanto per Salvini una felpa in più o in meno – si assenti per ben due ore da palazzo Chigi rispetto all’orario di convocazione di un Consiglio dei ministri cruciale, su un tema dirompente, per rispondere una volta di più alle domande de La7? Non gli bastava l’Ansa e le altre agenzie assiepata in Piazza Colonna, entrando? Ed è possibile che nel frattempo, manchino per caso all’appello anche altri due ministri pentastellati, quanto serviva per lasciare in parità – cinque a cinque – la compagine?



Va bene, sarà anche stato un caso. Ed è mai possibile che Salvini si limiti a stralciare il “Salva Roma” che intanto la viceministro all’Economia Laura Castelli sta riscrivendo come il leader leghista chiede, mentre Di Maio, appreso del blitz, si limita all’invettiva: “Se c’è qualcuno che sta godendo perché non è passata questa norma complimenti. È semplicemente una ripicca verso i cittadini romani”?



Va bene tutto, ma che rissa è una rissa gestita col cronometro? Una rissa grazie alla quale Salvini può cantare vittoria per aver ottenuto lo stralcio di 5 commi su 7 del decreto Salva Roma mentre Di Maio ha potuto evitare di controfirmare la scelta, sopraggiungendo a decisione presa e comunicata, e ha potuto prendersela con il povero para-premier Giuseppe Conte per il blitz salviniano e per non aver ancora pelato la gatta del caso Siri, il sottosegretario inquisito e sospeso dalle deleghe, ma ancora nell’esecutivo, nonostante la precisa richiesta dei Cinquestelle… Strana rissa.

Insomma, accanto alla valutazione più oggettiva e immediata – che cioè leghisti e grillini siano ai pesci in faccia e attendano solo i 32 giorni che ci separano dalle europee per fare i conti dopo -resiste anche l’altra, che cioè sia tutta una “combine”, sia pur stiracchiata, concordata dai due vicepremier per vincere ciascuno a metà, per quanto oggettivamente la mezza vittoria di Di Maio sia più difficile individuare, a meno che domani – ed è probabile – non venga fuori un pateracchio per il quale Siri si autosospenda restando però nella compagine o qualche altro cavillo che il “difensore degli italiani” Conte potrebbe escogitare. Si vedrà.

La sostanza è però ormai indiscutibile e lapalissiana. Siamo alla frutta. E se ci fosse in Italia uno straccio di alternativa politica, i due leader – nemiciamici come Tom e Jerry – la pagherebbero carissima. Anche Salvini: perché di furbate si sopravvive e non si vive e perché di mezze misure abortite, come stanno rivelandosi, conti alla mano, tanto la “quota 100” a lui cara quanto il reddito di cittadinanza sbandierato dal compare, alla fine si soccombe. Ma è qui la loro forza, la loro possibilità di sopravvivenza di questo Governo o di uno ribaltato nei rapporti di forza dal prossimo voto però fotocopiato nella composizione: l’assenza totale di alternative.

Un Berlusconi fuori controllo, ridotto a riproporre nei tristemente famosi cartelloni 6×3 gigantografie di vent’anni e molti capelli fa, senza un programma, senza uno slogan, senza un solo cannoniere da schierare un campo. Uno Zingaretti brava persona, zavorrato però dai soliti veti incrociati del fantasma del Pd, sceso in campo con la speranza di tanti che potesse essere lui quel “Bersani aumentato” di cui il partito avrebbe bisogno e invece subito rivelatosi, addirittura, un Bersani indebolito e senza giaguaro smacchiato. Insomma, chi dovrebbero votare, gli italiani, se non Lega o M5s, salvo la comunque minoritaria e satellitare Meloni?

E dunque resta in piedi questo governo-zombie, come l’ha ben definito Stefano Folli, sostanzialmente incapace di prendere decisioni incisive, per niente rappresentativo all’estero, quasi senza portafoglio economico, costruito sulle parole e soprattutto sulle polemiche. Dove, certo, la leadership politica e soprattutto energetica di Salvini risalta nettamente nel contesto, ma al prezzo di un quotidiano azzardo morale che si rivelerà prima o poi non privo di costi anche salati anche per l’apparente primattore.