Con quella voce così profonda e cavernosa, Vincenzo De Luca sin da giovane ha scelto l’humor noir come modello retorico personale. In anni ormai lontani fece scalpore e generò ilarità tra gli alti dirigenti e i seri intellettuali di partito un suo convinto endorsement al regime cambogiano di Pol Pot. Per chi non lo ricordasse, Pol Pot, leader dei Khmer Rossi, dal 1976 al 1979 aveva letteralmente sterminato un’intera classe dirigente e di conseguenza aveva dovuto affidare lo Stato, il partito e l’esercito ai ragazzi dai 12 ai 16 anni.
Estremizzare per rendere il più chiaro possibile il proprio messaggio è un modo semplice per farsi capire e ottenere attenzione. Mi è capitato di recente di assistere a qualche discorso in pubblico di De Luca e ho avvertito con sorpresa che una parte degli ascoltatori – forse perché tra di loro c’è chi conosce già le battute – incomincia a ridere prima che il governatore le pronunci. Basta un sospiro o un’alzata di ciglia e già essi capiscono dove vuole arrivare. Insomma, proprio come accade a teatro ai comici più bravi.
De Luca ha convissuto con questo sua immagine in questi anni e, da politico intelligente qual è, ne ha tratto i giusti vantaggi. Secondo me, pienamente consapevole dei danni collaterali a cui è soggetto, come quello di essere considerato greve, irriverente, arrogante. La fermezza con cui si è rivolto e ha guidato i campani durante l’emergenza Covid-19 ne ha rilanciato i suoi tratti più concreti di amministratore capace, attento alle piccole cose. Ma è piaciuta anche la grinta con cui ha difeso i suoi concittadini da chi prevedeva imminenti disastri, e ciò ha contribuito a suscitare un vero e proprio moto di orgoglio che – quando si attiva – è l’unica vera molla che spinge i meridionali a dare il meglio di sé.
La battuta di ieri su Zingaretti (“è andato a Milano a fare l’aperitivo e si è preso il virus, Dio esiste”) che ha fatto infuriare giustamente il Pd ha però anche una seconda origine, decisamente più politica.
In queste settimane il rapporto tra De Luca e il suo partito di provenienza è diventato a dir poco idilliaco. Il Pd che aveva resistito fino a febbraio nell’indicarlo come candidato, in attesa di un accordo nazionale con i 5 Stelle che avrebbe potuto richiedere il suo sacrificio, di fronte all’impennata di consensi ha sciolto ogni riserva. Lo stesso giovane segretario di Napoli, Marco Sarracino, che aveva coraggiosamente tentato una manovra di allargamento della coalizione verso de Magistris e i 5 Stelle in occasione delle elezioni suppletive nel collegio cittadino del Senato (aggiudicato poi al giornalista indipendente Sandro Ruotolo), ha capitolato riponendo le armi. De Luca ha risposto molto generosamente. Si è addirittura concesso un lungo discorso di chiusura alla conferenza programmatica del Pd napoletano, ricucendo ferite e incomprensioni.
Deve però essergli apparsa ad un certo punto eccessiva tutta questa improvvisa corrispondenza di amorosi sensi. E non ha trovato di meglio che alzare subito la tensione, come a dire “io sono e resto altra cosa da questo Pd”, parlando a quella vasta area di sostenitori – che si spinge molto in profondità tra gli elettori di centrodestra – che mal digerisce un governatore troppo filo-Pd.
Ma vi è anche una ragione più pragmaticamente elettorale. De Luca fa fatica a contenere la folla di aspiranti candidati che vogliono correre dietro il suo nome. L’obiettivo di ridurre a 10 – che è già un bel numero – le liste civiche a suo sostegno sembra impraticabile e molto probabilmente si arriverà a 14, con centinaia di candidati che combatteranno metro per metro alla conquista del voto di preferenza.
Eppure la sensazione di questi giorni è che, al di là di quello che appare, il Pd e De Luca si daranno un grande aiuto reciproco. Il governatore, di cui possiamo considerare quasi certa la riconferma con un largo vantaggio sul candidato del centrodestra, potrebbe addirittura ottenere un sostegno inaspettato da ambienti di sinistra che solo qualche mese fa gli erano ferocemente ostili (i quartieri bene di Napoli, gli intellettuali di sinistra che gli hanno perdonato le sue “salvinate” sugli immigrati, lo stesso Ruotolo, perfino de Magistris e ambienti 5 Stelle). Mentre il Pd – unico partito in grado di porre un freno allo strapotere del governatore e alla schiera di ossequiosi eletti provenienti dalle civiche – potrebbe riconquistare un fetta importante del voto di opinione e ritrovare quel ruolo centrale, anche elettorale, che aveva perso malamente 10 anni fa.