Romano Prodi e Mario Monti: due ex premier, uno eletto due volte dal centrosinistra, l’altro imposto da Giorgio Napolitano con la rimozione forzata di Silvio Berlusconi nel 2011. Un ex presidente della Commissione Ue (indicato da popolari e socialdemocratici) e un ex commissario senior, designato prima dal governo Berlusconi e poi da quello D’Alema. Senatore a vita, Monti: investito dal Quirinale in tempo reale con l’incarico di premier tecnico. Prodi lo sarebbe certamente divenuto nella prima repubblica, al pari di colleghi democristiani come Giulio Andreotti o Emilio Colombo. Al professore emiliano è stata però fatale l’intransigenza del neonato Pd: quella che ha sempre mantenuto la fatwa sulla nomina gemella di Berlusconi (“dioscuro” di Prodi nella seconda repubblica).



Già nel 2013, comunque, un vero e proprio “fuoco amico” dall’interno dei dem aveva abbattuto sul traguardo la candidatura di Prodi al Quirinale. E due anni dopo, nell’alternanza negoziata fra Renzi e Berlusconi, nel patto del Nazareno spuntò un altro cattodem: Sergio Mattarella. Il quale, in dieci anni, si è limitato ad offrire il laticlavio a vita alla sola Liliana Segre. È invece rimasto sempre nel cassetto quello che sembrava scontato per Mario Draghi (lui pure premier tecnico, ma in odore permanente di successione a Mattarella, già alla scadenza del 2022).



Prodi e Monti: sono stati loro a lanciare un appello perché anche l’opposizione al governo Meloni voti la candidatura di Raffaele Fitto a vicepresidente della Commissione Von der Leyen 2. L’endorsement dei due “padri nobili” italiani – entrambi diversamente all’opposizione del governo Meloni – è apparso tutt’altro che scontato, all’indomani della doppia affermazione elettorale del Pd in Emilia-Romagna e Umbria. E quando dal Quirinale “dem” sono giunte nuove sollecitazioni alla “pacificazione istituzionale”, soprattutto fra parlamento e governo e potere giudiziario. Pare d’altronde Mattarella il più interessato a una distensione politica in Italia, dopo un anno caratterizzato da una costante contrapposizione del Quirinale a palazzo Chigi: dalla gestione delle piazze anti-israeliane all’offensiva giudiziaria sui migranti, fino all’ultimo viaggio ufficiale del Presidente in Cina, accompagnato da Prodi e da John Elkann Agnelli, nei giorni delle presidenziali Usa.



Nelle urne i dem hanno certamente tenuto la roccaforte di Bologna e riconquistato l’Umbria dopo la parentesi di una sola legislatura. Ma sono due successi tattici che Prodi per primo si è guardato dal festeggiare, facendosi notare anzi per la denuncia preoccupata dell’affluenza in caduta libera, benché oggettivamente favorevole al centrosinistra. Soprattutto in Emilia-Romagna, d’altronde, l’esito delle urne è stato incassato dalla segretaria dem Elly Schlein (che nella “battaglia di Bologna” del 2019 aveva costruito la sua scalata nazionale), dopo essere uscita rafforzata già dall’eurovoto di giugno. Prima e indiscussa vincitrice delle elezioni Ue è stata comunque la premier: che ha bissato l’affermazione delle politiche 2022 e ha spento sul nascere le speranze – forse anche di Mattarella e Prodi – di una replica del ribaltone estivo del 2019, a valle del voto europeo (la palla del Conte 2 fu alzata al Quirinale come “governo Ursula” proprio dal professore). Cinque anni dopo, il rinnovo del parlamento europeo ha invece provocato la “caduta degli dei” in Europa: le detronizzazione del presidente francese, il liberale Emmanuel Macron (personalmente legato a Mattarella dal “Trattato del Quirinale” del 2021) e poi del cancelliere tedesco, il socialdemocratico Olaf Scholz. Da ultimo è uscito di scena a Washington il dem Joe Biden.

Non è un caso che il fair play composto della premier Meloni si sia spinto a fare i complimenti ai due nuovi governatori di centrosinistra. Non è certo da oggi che le due donne a capo della maggioranza e dell’opposizione a Roma sembrano remare per lunghi tratti in una stessa direzione: quella del voto 2027, immaginato come sfida fra la 50enne Meloni e la 40enne Schlein. Sarebbe il vero inizio di una terza repubblica molto diversa. nella quale certamente non vi sarebbe più posto per Mattarella, Prodi e per un’intera generazione politica nel Paese, trasversale agli schieramenti. Non stupisce che siano i grandi vecchi del Pd (o grand commis come Monti) a tirare per la giacca la sempre-più-leader del partito: apparentemente meno autocratica, ma alla fine più autonoma e imprevedibile dello stesso Renzi. E come lui molto più orientata agli Usa (ne ha addirittura la cittadinanza) che alla Ue.

Per l’appunto: le turbolenze politiche nazionali – in entrambi gli schieramenti – sono nulla a confronto dei terremoti che stanno scuotendo Usa e Ue dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. E uno dei dati meno contestabili e forse più politicamente brutali di queste ore è che nella Ue c’è un solo governo stabile in carica: quello di destra-centro guidato a Roma da Meloni. Una premier che – a differenza di Macron e Scholz – ha mantenuto un allineamento inequivocabile e coerente con gli Usa del “dem” Joe Biden, anzitutto sul fronte ucraino e su quello mediorientale. Meloni (leader politica dei conservatori europei) ha tuttavia più di un punto di omogeneità ideologica con la destra trumpiana vincente negli States. E, non certo da ultimo, ha stabilito prima delle presidenziali Usa un rapporto personale con Elon Musk, in questo momento una sorta di “alter ego” di Trump.

È evidente e comprensibile come Mattarella – anche attraverso il tentativo di “cattura” di Fitto da parte di Prodi e Monti – sia desideroso di “pace istituzionale”, a Roma come a Bruxelles. Se Fitto dovesse essere bocciato dai socialdemocratici europei (con i dem italiani compatti a Strasburgo) è reale il rischio che “Ursula 2” cada ancor prima del primo giorno. La Ue fondata dai grandi cristiano-democratici (De Gasperi e Adenauer) ed ereditata da democristiani come Prodi e da centristi liberaldemocratici come Monti, sarebbe in rovina sotto gli occhi del mondo (parecchi compiaciuti). Ed effetti collaterali non piccoli sarebbero prevedibili a Roma, dopo che il partito del Presidente avesse votato in Europa contro il candidato del governo italiano democraticamente in carica. Fra le molte conseguenze ipotizzabili è già sul tavolo degli osservatori il rientro in scena di Draghi, a Bruxelles o a Roma. O perfino a Francoforte, dove Christine Lagarde  – imposta da Macron nell’estate 2019 – non si è mai conquistata la credibilità del predecessore nel pilotare l’euro negli oceani geopolitici agitati dalla pandemia e poi dalle guerre.

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