Matteo Salvini è tornato ad auspicare la salita di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica il prossimo febbraio. “Se Draghi dovesse ritenere, la Lega lo sosterrà per il Quirinale con convinzione”, ha detto al Corriere della Sera. E ha aggiunto: “Per noi, se lui fosse d’accordo, il prossimo capo dello Stato sarà Draghi. Certo, il problema è il Pd, che di candidati pullula…”. Appunto, i democratici. Hanno un candidato diverso per ogni corrente e nessuno corrisponde al nome dell’attuale premier. Draghi non è il candidato del Pd e non può esserlo. Non è la scelta di Enrico Letta, che tifa per Romano Prodi ma non può dirlo per non bruciarlo. Non è l’opzione dell’ala europeista del Pd, cioè del commissario Ue Paolo Gentiloni e del presidente dell’europarlamento David Sassoli, i quali aspirano in prima persona al Colle ed essendo delle figure sbiadite forse hanno pure qualche possibilità.
Draghi non è neppure il candidato dell’arco giallorosso, soprattutto dopo lo schiaffo a Giuseppe Conte con la cacciata di Gennaro Vecchione dalla guida dei servizi segreti. Ma soprattutto, sostenere il passaggio da Palazzo Chigi al Quirinale significherebbe suggellare il patto con il centrodestra che è alla base dell’attuale maggioranza. Un accordo bipartisan per la gestione del Recovery plan, gestione che non si esaurirà certo né entro febbraio 2022 (scadenza del mandato di Sergio Mattarella) ma neppure entro marzo 2023 (scadenza naturale della legislatura). Draghi non rispecchia l’asse Pd-M5s, piuttosto è espressione di ambienti moderati e delle tecnocrazie che coinvolgono Lega, Forza Italia, Italia viva fino a sfiorare il Pd.
È un curioso paradosso quello di un partito, il Pd, che dà i voti a Draghi per stare a Palazzo Chigi ma fa capire che glieli negherebbe per traslocare al Quirinale. Letta invece spinge per Prodi. Gli fu vicino nei suoi governi, ne condivide la chiusura tranchant al centrodestra (come dimostrano le continue quanto inutili reprimende contro Salvini), si riflette nella sua linea filocinese che dettava la direzione ai tempi dell’esecutivo giallorosso e teneva assieme Conte e D’Alema. Ma ora questa politica estera non funziona più: dopo l’arrivo di Joe Biden al posto di Donald Trump e dell’atlanticissimo Draghi, la nostra diplomazia ha dovuto digerire un repentino cambio di rotta.
Sarà dunque molto accidentata, per il premier, la strada verso il Colle, sempre che voglia intraprenderla. L’ostilità della vecchia maggioranza non è l’unico ostacolo: l’altro sono i tempi. Nel febbraio prossimo il lavoro di gestione del Recovery sarà ancora in fase di abbozzo. Ci vorrebbe un bis di Mattarella, sul modello di Giorgio Napolitano anche se più breve, che consenta di fare svolgere le elezioni del 2023 avviando la successione subito dopo. Ma è già arduo trovare un’intesa sul nome di Draghi, figurarsi sul prolungamento del mandato proprio per fare un favore all’ex banchiere centrale.
E comunque non è scontato che Mattarella voglia fare il bis, anche se di un solo anno e poco più. Perché non è detto che il candidato dell’attuale presidente sia lo stesso Draghi. Non è da escludere che il partito del Colle voglia giocare una sua carta, per esempio Marta Cartabia, la prima donna al Quirinale. Ma qui si riproporrebbe lo stesso dilemma che riguarda Draghi: si può togliere dal governo un guardasigilli che sta mettendo mano a una complicatissima riforma della giustizia, addirittura legandola al destino del Recovery? Ancora una volta, la chiave che apre le porte verso la soluzione si trova al Colle.
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