Un mese di governo, un mese di un blob inafferrabile, proprio come quella misteriosa sostanza gelatinosa che non ha né forma né nome. Il problema principale è che non si capisce chi comanda. Nell’esecutivo gialloverde le gerarchie erano chiare, sul ring salivano Luigi Di Maio e Matteo Salvini mentre il premier Giuseppe Conte faceva da arbitro e talvolta pure da sparring partner, cioè incassava qualche colpo pur di non mandare tutto per aria. Ora i contraenti sono raddoppiati, da 2 sono passati a 4: M5s, Pd, Leu, Italia viva. Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti, Pietro Grasso (o chi per lui), Matteo Renzi. E con lo schema è cambiato anche il rapporto di forza. Da un ring, o da un tavolo per il braccio di ferro, si è passati al tappeto verde del poker. Bisogna studiare chi è seduto agli altri lati del tavolo, capire se ha le carte o un bluff, interpretare le parole e anche i silenzi.



Finora uno tace e gli altri, chi più chi meno, parlano. Il muto è Zingaretti, la cui strategia è imperscrutabile. Il Pd si è caricato il dossier economico, con Paolo Gentiloni a Bruxelles e Roberto Gualtieri al ministero. La prima uscita verbale del nuovo ministro non è stata memorabile. Domenica scorsa a Lucia Annunziata ha parlato di “rimodulazione dell’Iva” scatenando il finimondo: poche ore dopo Di Maio ha smentito tutto in diretta tv, Conte è stato costretto a convocare d’urgenza un vertice notturno, il giorno dopo la mitica Nadef (Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) è apparsa in tutta la sua sconcertante debolezza.



Renzi rilascia tre interviste al giorno. C’è da capirlo: ha riconquistato la prima fila mediatica e deve cavalcarla. Sparito Salvini da teleschermi e giornali, ecco l’altro Matteo a sfruttare il favore dei media per guadagnare consenso. Con la differenza sostanziale che il leghista aveva un seguito consolidato nel Paese, e l’ha mantenuto: il suo è ancora saldamente il primo partito. Il salmone Renzi deve invece risalire la corrente, la sua strategia è fare valere un peso parlamentare inversamente proporzionale al peso elettorale.

Da questo punto di vista, più parla più si mostra debole perché privo dello strumento che Salvini poteva permettersi di usare come minaccia, cioè le elezioni. La Lega non aveva paura del voto, e non lo teme tuttora. Nel governo attuale, al contrario, ne hanno tutti il terrore. Nessuno dei quattro alleati può permettersi il lusso di agitare anche lontanamente lo spettro delle elezioni anticipate. E così sul tavolo del poker va in scena una partita fiacca, dove nessuno ha carte buone e tutti temono il bluff altrui. Compreso il premier Conte, che era partito inalberando un rinnovato profilo da condottiero anziché da mediatore ed è stato costretto ad abbassare la cresta perché i veri galli nel pollaio del governo sono altri.



Ma in questo modo nessuno nel quadripartito comanda davvero, nessuno si prende responsabilità e decide, come documenta la scarsità di iniziative in questo primo mese di attività.

A frenare contribuisce anche il voto di fine mese in Umbria. Per la prima volta (a parte la fiducia parlamentare al Conte bis) Pd e M5s mescolano i loro voti facendoli convergere su un candidato unitario. L’Umbria non è una Regione in grado di rovesciare gli equilibri romani. Tuttavia, se l’albergatore Vincenzo Bianconi dovesse perdere la sfida sarebbe un terremoto per la maggioranza. Anche per questo l’argomento tasse e manovra è stato silenziato. Le vere intenzioni del governo (e i vincoli che l’Europa imporrà) verranno alla luce soltanto l’ultima settimana di ottobre.