Aveva promesso di difendere Edoardo Rixi a oltranza Matteo Salvini. Invece ci ha messo meno di mezz’ora per ratificare le sue dimissioni da viceministro alle infrastrutture, dopo l’annuncio della sentenza di primo grado. Il cambio repentino di strategia colpisce, soprattutto a confronto con i venti giorni di difesa a oltranza di Armando Siri, meno di un mese fa.



Ci può essere solo una spiegazione nel comportamento del leader leghista: che la crisi di governo sia più vicina di quanto non ci si faccia credere, ma che il casus belli non possa essere certo una questione scivolosa di spese allegre al consiglio regionale della Liguria. Se rottura deve essere, questa deve avvenire su temi più alti, sui quali – ragionano i colonnelli del Carroccio – i grillini possano perdere la faccia.



A giorni si presenterà un’occasione d’oro, la Tav, con la scadenza del termine entro cui gli “avvisi di mercato” pubblicati a marzo si trasformeranno in bandi di gara veri e propri per quanto riguarda il tratto italiano. Galvanizzato dal voto piemontese, Salvini attende l’alleato grillino al varco: o passa sotto le forche caudine della Valsusa, o salta tutto. E se non sarà sulla Tav la rottura potrà avvenire su altri temi, come la flat tax, o l’autonomia differenziata delle Regioni del Nord.

Intendiamoci: a Salvini piacerebbe un sacco andare avanti ancora a lungo nell’operazione di spremere come un limone Di Maio (riconfermato leader da uno scontato plebiscito online), sfruttando la pochezza della classe dirigente espressa dagli alleati e sottraendo loro fasce crescenti di elettorato. Il tempo però stringe, ci sono i conti pubblici che mettono fretta, sotto il duplice aspetto di richiami europei e di legge di bilancio da lacrime e sangue da fare.



Il pressing del Quirinale per evitare l’immobilismo cresce quotidianamente. A Mattarella Conte ha espresso la ferma intenzione di andare avanti, ma ha anche dovuto spiegare che se dai suoi due vice dovessero arrivare richieste economicamente insostenibili (leggi flat tax), non sarebbe in grado di tenerli a bada.

A questo punto è auspicabile trascinare la situazione di paralisi del governo sino alla sessione di bilancio, oppure accelerare verso la fine di quella che potrebbe essere la legislatura più breve della storia repubblicana? Per ora questa domanda non ha trovato una risposta univoca da parte dei collaboratori del Capo dello Stato. Ma la palude spaventa e la priorità numero uno è approvare la legge di bilancio nei tempi previsti, cioè entro fine anno, ed evitare un esercizio provvisorio, che manca dal 1988.

C’è solo una finestra plausibile per votare in tempi ravvicinati: sciogliere le Camere intorno alla metà di luglio per andare a votare il 15 o il 22 settembre (il 29 è già troppo avanti, e coincide pure con una festività ebraica). Consentirebbe di avere le nuove assemblee insediate a inizio ottobre, e un governo in carica intorno al 20 di quel mese. Ci sarebbe poi da fare una corsa contro il tempo, ma il termine del 31 dicembre potrebbe essere rispettato.

C’è però un “ma” grande come una casa: nessuno può garantire che dalle urne esca una maggioranza chiara, visto che c’e incertezza sul quadro delle alleanze, soprattutto nel centrodestra. Basta poco per ritrovarci in una situazione senza maggioranza, come un anno fa, con una crisi infinita. Le simulazioni che escono in queste ore fanno sapere che il centrodestra unito vincerebbe a mani basse. Ma Salvini di Berlusconi non vuole saperne più. Un mini centrodestra con Lega e Fratelli d’Italia la maggioranza dei seggi potrebbe conseguirla, ma non proprio nitida.

Gli elementi d’incertezza sono talmente numerosi da non lasciar intravedere uno sbocco chiaro. Per trovare un precedente di elezioni politiche italiane in autunno bisogna risalire a cento anni fa esatti, al 1919. Mai però che ci sia stati così vicini. La scelta spetta ai partiti, Lega e 5 Stelle in primis. A loro Mattarella chiede di far presto, almeno nel decidere se andare avanti, o chiudere questa accidentata esperienza di governo.