È una situazione paradossale quella in cui si trova il Pd. È uno dei pilastri dell’esecutivo ed è il garante delle cancellerie europee per la stabilità italiana, ma nonostante questi titoli non riesce a darsi un’identità. Non offre ricette per uscire dall’emergenza economica, è costretto a subire un rinvio dopo l’altro da Giuseppe Conte, non riesce a imporre scelte di fondo a un esecutivo che continua a caratterizzarsi per le irresolutezze e le indecisioni. L’unico tema che il Pd abbia sollevato nelle ultime settimane è il rilancio dello “ius culturae” proposto da Graziano Delrio, che è però stato seppellito dal capo politico dei 5 stelle Vito Crimi prima che dai “soliti” Salvini e Meloni.



Il segretario dem Nicola Zingaretti appare sempre più come uno cui manca quel “quid” che Silvio Berlusconi avrebbe tanto voluto vedere in Angelino Alfano. I giornali hanno parlato di una sua volontà di rimpasto, così da salire al Viminale e dare una sterzata alla gestione degli sbarchi. Ma prima il Colle e poi gli alleati hanno eretto un muro: niente instabilità prima di elezioni regionali così rischiose. Da più parti nel Pd si alimenta insoddisfazione perché dopo un anno di governo i decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini sono ancora in vigore, eppure Zingaretti non sa decidersi: in privato critica le lentezze del premier ma in pubblico non vuole calcare la mano per non sembrare troppo sovranista.



Ora il segretario governatore ha trovato un nuovo cavallo di battaglia con il quale marcare una differenza dai 5 Stelle e costringerli a venire a patti. Si tratta del combinato tra taglio dei parlamentari e legge elettorale. Zingaretti vorrebbe far passare una riforma proporzionale in un ramo del Parlamento addirittura entro il 20 settembre, giorno in cui si svolgerà il referendum costituzionale. Un mese e mezzo per una legge elettorale sarebbe fantascienza anche se di mezzo non ci fossero le ferie di agosto. Ma il Pd si è accorto di avere fatto un pasticcio avendo accettato un patto di governo in cui il taglio dei parlamentari ha una scadenza certa (il referendum) mentre l’inevitabile revisione della legge elettorale no.



La questione è ancor più complicata dal fatto che in questa materia non è possibile escludere dalla trattativa l’opposizione. Al punto che molti ritengono che il vero destinatario della proposta zingarettiana non siano i partiti di governo, ma Forza Italia: il partito di Berlusconi avrebbe infatti tutto l’interesse a scansare una riforma maggioritaria in cambio di una stampella a Conte in occasione dei passaggi parlamentari più rischiosi. È un negoziato che al momento presenta solo ostacoli tranne che per il M5s, l’unico beneficiario della mannaia sui parlamentari. E molti nel Pd sono convinti che l’uscita di Zingaretti, più che un “aut aut” ai grillini (“se voi non votate la legge elettorale noi non voteremo il referendum”), sia una mesta ammissione di impotenza. Un modo per sancire quello che il Pd è stato in questo ultimo anno: un portatore d’acqua agli interessi altrui, siano essi i 5 stelle oppure i partner europei.