Nervi a posto, calma e gesso! Che altro commento si potrebbe fare rispetto a quello che è accaduto nel Partito democratico dopo un congresso che è durato la bellezza di cinque mesi? Forse si potrebbe ironizzare: sondaggisti di tutte le scuole e di tutti i riti, unitevi! Per l’errore, ovviamente.
Nel testa a testa finale, ha vinto la ragazza, Elly Schlein, di 37 anni, che si è iscritta al Pd, dopo alterne vicende, da poco tempo, e che rappresenta una novità assoluta nella storia della sinistra italiana. Il suo competitore, Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, favoritissimo alla vigilia, ha riconosciuto vittoria e collaborazione a Elly Schlein quando si è arrivati all’80 per cento dello spoglio della schede di queste primarie.
Nella vittoria della Schlein non si può dire che si sia verificato solo un colpo di scena. Qui, come ha detto la stessa Schlein nella sua prima conferenza stampa da segretaria, ci si trova di fronte a una sorta di “rivoluzione”.
Stefano Bonaccini, anche se ancora giovane, è una sorta di icona della continuità storica del Pd. È emiliano, di formazione e storia comunista, confluito poi nel partito che ha ereditato e modificato un po’ confusamente il cattocomunismo tipicamente italiano, che non sembra aver ancora chiarito quale vocazione ideale abbia abbracciato oggi, se non quella di ancorarsi a sinistra in un mondo in piena evoluzione, dove le antiche ideologie che hanno ispirato il Pd sono apparse sinora al momento o confuse o tramontate perché travolte dalla storia.
In conferenza stampa Elly Schlein si è soffermato soprattutto sui temi del lavoro, sulla precarietà e la povertà, non risparmiando critiche alla linea del suo partito, che è da rifondare. Non ha citato la parola mercato e tutto quello che ha comportato anche per il Pd la svolta liberista, se non neoliberista, il ruolo della finanza, le scelte di privatizzazione continua che hanno caratterizzato questi ultimi anni, proprio mentre si costituiva faticosamente il Pd. Avrà naturalmente tutto il tempo di farlo e in questo modo potremmo finalmente conoscere una svolta possibile o ipotizzabile nel partito che rappresenta la sinistra italiana.
Ma come accadrà tutto questo? Quando accadrà? E che risposta darà l’altra parte del partito che ora, con questa rivoluzione, si trova spaccato a metà, 52 a 48 più o meno?
Per comprendere un poco di quello che è già accaduto, di quello che tra poco può accadere e di quello che potrebbe accadere tra qualche tempo, anche drammaticamente, occorre rifarsi con tratti rapidi alla storia del Pd.
Il Partito democratico nasce ufficialmente il 14 ottobre 2007 dopo una serie di nomignoli che si sono succeduti una volta avvenuta la caduta del Muro di Berlino e il collasso del comunismo sovietico.
Improvvisamente si scopre che il Pd starebbe diventando un partito riformista, pur seguendo la politica di austerity che si attua nell’Unione Europea, pur tollerando le leggi del capitalismo finanziario che ha il suo “parlamento” a Davos e, in più, per verità storica, non avendo mai sopportato la parola “riformista”, che risaliva a Turati, Treves, Bissolati e Anna Kuliscioff.
Anzi stigmatizzando cento anni dopo i seguaci di quei riformisti come “tangentari” incalliti da condannare, con una stampa posseduta da snaturati padroni ribattezzati “capitani di sventura” e da una magistratura politicizzata che è veramente unica in modo negativo nel mondo occidentale e democratico.
Cose vecchie, ormai dimenticate, come quelle relative all’oro che veniva invece puntualmente dall’Unione Sovietica per foraggiare i nemici dei riformisti.
Che cosa avviene in quel 2007? Con la nascita del Pd, segretario Walter Veltroni, la “società del futuro” nasce addirittura da una confusione ideologica che vede compromessi persino tra sedicenti kennediani e brezneviani ( bisogna rileggersi per ridere la relazione di Veltroni). Poi ci sono regole precise per il nuovo partito, dove il leader dovrebbe essere eletto ogni quattro anni da un congresso e diventa anche il naturale candidato premier.
È stata così ironicamente lineare la storia del Pd, che in soli 15 anni ha avuto dieci leader, nell’ordine, con durata diversa: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, un “breve” Orfini e ancora Renzi, un altrettanto breve Martina, Zingaretti e infine Letta. Tutti quanti se ne sono andati sbattendo la porta. Deve essere un record storico di ricambi.
Le regole delle primarie, che hanno contribuito a far crollare i partiti, sono cominciate subito. La Schlein è la quinta segretaria eletta con primarie su circa un milione di voti. Il primo, Veltroni, vide una partecipazione di tre milioni e mezzo, fino alla discesa di Zingaretti ad una platea di un milione e 300mila votanti. Si è scesi sempre nella partecipazione, anche se non lo si dice, e il dibattito nel Pd non è sembrato mai molto chiaro. Ieri sera Massimo Cacciari confessava di non aver votato perché non aveva compreso le posizioni che avevano Bonaccini e la Schlein.
Possono essere tutti dettagli rispetto però a un fatto che è clamoroso: non ere mai capitato che le primarie degli iscritti al partito e ai circoli dessero la maggioranza secca a uno, Bonaccini, e invece la libera partecipazione dei non iscritti, votando al costo di due euro, desse la segreteria a un altro, come è avvenuto in questa occasione con la Schlein.
La deduzione è che l’apparato del Pd è contestato nelle sue scelte e nella sua visione politica dai suoi stessi simpatizzanti e quindi questo apparato non rappresenta affatto i suoi simpatizzanti. Partito strano, oltre che spaccato in due sul filo del 50 per cento a testa.
Magari tutto si accomoderà e il Pd avrà un successo clamoroso nel prossimo futuro. Al momento, si può solo vedere una confusa ala riformista che si contrappone a un’ala più radicale. Dopo una ventina di anni, dove l’ Italia si è impoverita costantemente, le disuguaglianze sono aumentate, la sinistra è stata tanto evanescente da far vincere per anni prima un governo di centrodestra e adesso di destra-centro.
Forse la rivoluzione, non violenta, è meglio farla fuori dal partito, non dentro. A volte si rischiano pure le scissioni, non solo le astensioni elettorali di massa. Anche se al momento ci si culla nell’entusiasmo. È un fatto tipico della scarsa memoria italiana.
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