Dopo l’eccidio di Mosca si è improvvisamente acceso un interesse per il mondo sconosciuto dell’Asia Centrale. Molti pensavano, solo in parte giustamente, a un territorio pressoché disabitato, percorso da cavalli allo stato brado e da mandrie di pecore guidate da pastori erranti dell’Asia, dediti a canti notturni.



Essendo stato dal 1994 al ’99 vicario generale dell’unico vescovo, amministratore apostolico di cinque Paesi dell’Asia Centrale (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizia e Tagikistan), questo mondo sconosciuto ho avuto modo di conoscerlo, ed anche in modo approfondito.

In quel periodo ho potuto – sarebbe meglio dire dovuto – percorrere, per lo più in macchina, spesso su strade ghiacciate o così disastrate da far invidia alle buche di Roma e Milano, villaggi e città per visitare le nuove parrocchie nate, più o meno ufficialmente, dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica.



Oltre alle comunità cattoliche ho potuto visitare le città principali, e grazie al lavoro che facevo anche in università ho potuto favorire l’apertura di corsi di italiano, come ad esempio all’Università di Samarcanda.

Nel frattempo ho anche incominciato a conoscere la cultura e le tradizioni di queste popolazioni. Ho anche potuto tradurre e pubblicare qualche esempio interessante della loro letteratura.

Non avendo certo la pretesa di esaurire in un breve articolo un discorso sull’Asia Centrale, mi limiterei ad un episodio, secondo me, molto interessante e credo per lo più quasi sconosciuto anche ai cultori della grande letteratura russa.



Mi riferisco allo scambio epistolare tra il grande scrittore russo Fëdor Dostoevskij e il kazako Chokan Valikhanov (anche se lui si definisce kirghizo, perché al suo tempo i due popoli non si erano ancora completamente distinti), ufficiale di un reparto di esploratori dell’esercito zarista. Le lettere si riferiscono al periodo 1856-1862, quando Dostoevskij si trovava al confino dopo essere uscito dal luogo di deportazione di Semipalatinsk (Kazakistan).

Le lettere trattano di problemi di ogni tipo, ma spesso affrontano il problema del rapporto tra i russi e le popolazioni della steppa asiatica. I russi non avevano occupato questi territori, ma li controllavano politicamente, esercitando una specie di protettorato. Si riservavano, ad esempio, il diritto di veto sull’elezione dei khan locali, a volte, come si lamenta apertamente Valikhanov, favorendo forme di islam radicale sconosciute ai popoli della steppa, ma che assicuravano ai khan la sottomissione della gente.

In uno scritto pubblicato nel 1864, cioè successivo alle lettere con lo scrittore russo, ma evidentemente influenzate dal dialogo con lui, Valikhanov, musulmano “laico”, arriva a dire che i kirghizi avrebbero bisogno del cristianesimo, ma i missionari – ortodossi – russi non possono pretendere che per diventare cristiani prima si debba diventare russi. La questione anche oggi non è risolta, anzi a volte anche la nuova missione, lodevole, dei preti cattolici sembrerebbe suggerire che per diventare cristiani cattolici prima bisogna diventare polacchi.

C’è ancora comunque, in tutti i discendenti di etnie europee, spesso arrivate nella steppa a causa della deportazione, una certa resistenza ad entrare nella cultura locale, che da sempre prevede di accettare l’islam purché non si presenti come radicale. Ne è di esempio il peso della tradizione “sufi”, soprattutto in Uzbekistan, e sul piano giuridico le “jety zhargy”, le sette leggi dei kazaki, che prevedono anche la possibilità del Battesimo.

Oggi queste tradizioni rischiano di essere soppiantate dai nuovi predicatori islamisti, per ora combattuti per lo più dai governi dell’Asia Centrale, ma sostenuti dagli investitori di alcuni Paesi arabi, come il Qatar, molto impegnati nel campo dell’edilizia, comprese le nuove moschee.

Credetemi, la Via della Seta che attraversa questi territori non è solo un semplice punto di passaggio tra il mondo russo e quello cinese, ma un luogo che sarà sempre più interessante per gli equilibri nel mondo cosiddetto euroasiatico.

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