Lo spread torna a far parlare di sé. Rispetto al passato, però, questa volta l’andamento del differenziale tra il nostro Btp decennale e il Bund tedesco viene commentato positivamente a gran voce. Certamente, il dato di queste ultime giornate non può che essere visto favorevolmente, ma solo e solamente nella sua entità assoluta ovvero l’ammontare finale. Ieri, infatti, sul finire di ottava si poteva serenamente constatare quanto già accaduto nelle ore precedenti: «Lo spread tra Btp e Bund scende sotto i 130 punti base. Aggiorna ancora i minimi dal gennaio 2022. Lo spread tra Btp e Bund continua nella sua discesa: il differenziale verso la chiusura della seduta è sceso di qualche frazione sotto i 130 punti base, come già nella parte finale della giornata di ieri, aggiornando ancora i minimi dal gennaio 2022. Il rendimento del prodotto del Tesoro è al 3,56%» (Ansa).
Siamo consapevoli che il “tema-spread” sia affascinante e, infatti, non è un caso come la sua entità venga fotografata a ogni inizio e fine giornata delle contrattazioni. Resta, comunque, il rischio di incappare in un falso mito strettamente correlato all’andamento positivo o negativo rispetto al passato.
A tale temuta difficoltà, infatti, fornivamo un anno fa un primo contributo su queste pagine («Il vero problema dei Btp che lo spread non vede»), non solo, infatti, a distanza di qualche mese, poi, a ottobre («La doppia e pericolosa verità su spread e rendimenti dei Btp») riportavamo sotto la lente d’ingrandimento il medesimo argomento sottolineando l’importanza di dover contestualizzare l’andamento del differenziale al reale costo sostenuto in capo al debito.
Questa la nostra sintesi: «Lo spread resta stazionario, ma i rendimenti dei Btp continuano a crescere e questo non è certamente un fatto positivo per la finanza pubblica italiana». Oggi, ancora una volta, riteniamo opportuno tornare sull’argomento. È vero che gli attuali livelli dello spread si siano ridimensionati rispetto a gennaio 2022: allora, gli interventi della Bce non avevano interferito e, pertanto, si poteva agilmente godere di soglie a ridosso dell’area zero con un rendimento dei titoli di Stato tedeschi a quota -0,124%, mentre, nello stivale italico si assisteva a un marginale 1,196%. A distanza di un solo anno, però, causa l’azione (obbligata) da parte dell’Istituto capitanato dalla Presidente Lagarde, si è concretizzato un vertiginoso rialzo del costo del debito ovvero dei rendimenti in dote ai titoli di Stato di ciascun Paese.
Non è un caso come, riprendendo la già citata rappresentazione grafica presente sul sito internet del Dipartimento del Tesoro, si possa riscontrare l’ammontare dei “costi medi all’emissione dei titoli di Stato”: «Il grafico mostra l’andamento del tasso di interesse dei titoli di Stato (media ponderata per i quantitativi) calcolato sulla base dei rendimenti lordi all’emissione dei titoli emessi nel singolo anno. Fra il 2022 ed il 2023, il valore è passato da 1,71% a 3,76%».
Ora, guardando al più recente passato, raffrontando l’entità dei rendimenti di ciascun decennale si può prendere coscienza di un vero e proprio fatto inconsueto: a fine dicembre 2023 il Btp remunerava attraverso un rendimento del 3,712% rispetto a un più modesto 2,028% riconducibile al sottostante tedesco. Oggi, invece, il Bel Paese vede scendere il proprio valore al 3,60%, mentre, la Germania, subisce un incremento (inusuale) rispetto al suo consueto benessere: +2,294% la dote (il costo) del suo debito.
Questi sono i dati che, pur confermando il sorpasso dell’Italia attestano, invece, il peggioramento delle finanze pubbliche tedesche. C’è e rimane, comunque, un però: molto serio. Nonostante questo percorso in discesa stia caratterizzando favorevolmente lo spread tricolore è doveroso focalizzare l’attenzione su altri numeri. Molto importanti.
Come visto il costo del debito si è più che raddoppiato rispetto al 2022, ma, non solo, anche l’entità della composizione degli stessi titoli ha visto un rialzo considerevole: al 31 dicembre 2021 l’ammontare dei sottostanti in circolazione era pari a 2.236.302,78 milioni di euro, mentre, a fine febbraio 2024 l’intero asset debitorio veniva quantificato in 2.414.620,94 milioni di euro.
La conclusione appare ovvia e scontata: alla precedente mole debitoria contraddistinta da un “costo esiguo”, oggi, invece, si contrappone un fardello complessivamente più ampio e, per lo più, pagato a un sempre caro e maggiore prezzo. Pur banale che sia, spread a parte, si stava meglio quando si stava peggio.
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