Tra i vari argomenti della recente visita di Joe Biden in Arabia Saudita, la guerra nello Yemen non ha avuto un posto di rilievo, nonostante la tragedia in cui da otto anni versa questo Paese, tra i più poveri del mondo e il più povero nel mondo arabo. La posizione di Biden si era distinta per una certa presa di distanza dall’appoggio pressoché incondizionato all’Arabia Saudita dei suoi predecessori, così come era stato molto netto nel condannare l’assassinio nel 2018 del giornalista Jamal Khashoggi.



Durante la sua campagna elettorale, Biden aveva dichiarato che avrebbe fatto sì che l’Arabia Saudita diventasse un “paria” sul piano internazionale. La Cia aveva esplicitamente accusato per l’assassinio il detentore di fatto del potere in Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman.

Il punto è che MbS, così viene denominato il principe, è stato il protagonista dell’incontro con Biden, che ha dovuto attenuare la sua posizione. Biden e il suo staff hanno dichiarato che durante l’incontro sono state espresse chiare critiche a MbS, chiamato direttamente in causa. Secondo quanto riportato da Reuters, la versione saudita è un po’ diversa e afferma che il principe ha definito un grave errore l’assassinio di Khashoggi, ma ribattendo che anche gli Stati Uniti ne hanno commessi.



Il riferimento esplicito è alle guerre in Afghanistan e in Iraq, sottolineando che non si possono imporre con la forza i propri valori ad altri Paesi, e citando in particolare il caso di Abu Ghraib. Nel 2003, nella prigione di questa cittadina dell’Iraq, militari statunitensi e membri della Cia si resero responsabili di torture su parecchi prigionieri iracheni. Questi fatti, resi pubblici dai media nel 2004, portarono a scuse ufficiali da parte del segretario alla Difesa dell’epoca, Donald Rumsfeld.

Riguardo allo Yemen, l’unico elemento rilevante è l’impegno di entrambe le parti a sostenere il prolungamento di altri sei mesi del cessate il fuoco in atto dallo scorso aprile, ma in scadenza il prossimo 2 agosto. La tregua ha portato a una consistente riduzione delle perdite, sia tra i combattenti che tra i civili, nonostante le numerose infrazioni da parte di tutti i contendenti. Ha inoltre permesso l’arrivo di aiuti umanitari ai 19 milioni di yemeniti a rischio di fame. L’inviato dell’Onu sta cercando di appianare le reciproche accuse di violazione della tregua, condizione perché il cessate il fuoco possa essere prolungato.



L’incontro di Riyadh si è in effetti focalizzato sui rapporti tra Arabia Saudita e Israele, tutto sommato sulla falsariga degli Accordi di Abramo voluto da Donald Trump, e sulla questione petrolio. Biden ha cercato di ottenere dai sauditi un aumento della produzione di petrolio per poterne calmierare i prezzi dopo le sanzioni alla Russia. Una richiesta che non pare aver avuto un grande successo, sia per questioni tecniche che non consentono pesanti incrementi nel breve, sia per ragioni politiche. Infatti, MbS ha detto che porterà la questione alla prossima riunione Opec+ dell’inizio di agosto. Il problema è che quel + aggiunto alla sigla indica dieci Paesi al di fuori dell’Opec tra cui la Russia e ci si può chiedere quanto i sauditi e gli altri produttori di petrolio saranno disposti ad andare contro Mosca per far piacere a Washington.

La questione petrolio ci riporta allo Yemen, in termini ancora tragici. Un recente articolo apparso su Al Monitor dà rilievo a un incombente disastro nel mare di fronte al porto di Hodeidah, nella parte dello Yemen controllata dai ribelli. Si tratta di una nave cisterna carica di petrolio, la Fso Safer, lì ormeggiata da anni senza manutenzione e che rischia di perdere il suo carico in mare. Senza interventi nel breve tempo, “Ci sarà una massiccia fuoriuscita di petrolio come non si è mai vista al mondo … con catastrofiche conseguenze economiche ed ambientali”. Sono le parole di Tim Lenderking, inviato speciale degli Stati Uniti nello Yemen.

Gli Houthi hanno approvato un intervento dell’Onu per svuotare la nave, il cui costo è stimato in 144 milioni di dollari; il costo del risanamento dopo la fuoriuscita del petrolio è stimato in 20 miliardi. L’Onu è riuscita finora a raccogliere 60 milioni di dollari e ne servono almeno altri 20 per poter iniziare le operazioni di messa in sicurezza e di svuotamento della nave. Ha quindi lanciato una campagna di crowdfunding rivolta al grande pubblico.

Resta davvero difficile credere che le grandi potenze coinvolte nella guerra in Yemen non trovino 20 milioni per evitare una catastrofe di queste proporzioni e che l’Onu sia costretta a una raccolta fondi pubblica. O forse non è così difficile, vista la sostanziale indifferenza con cui è stata affrontata finora la tragedia yemenita.

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