Il bollettino Istat sull’andamento dell’occupazione nel mese di ottobre 2022 segnala un aumento di 82mila posti di lavoro. Un dato sorprendente se raffrontato agli allarmi diffusi dalle associazioni delle imprese preoccupate per le conseguenze dell’aumento dei costi dell’energia e all’impatto dell’inflazione a due cifre sul potere di acquisto dei salari. La sottovalutazione della capacità di resilienza del nostro sistema delle imprese, rafforzata nel corso della pandemia Covid, rimane una costante delle previsioni economiche.
Nel caso specifico, l’incremento del mese di ottobre consente di recuperare le perdite trimestrali e di riportare il dato della crescita tendenziale degli occupati rispetto al mese di ottobre 2021 sul mezzo milione di occupati aggiuntivi.
Il contributo alla crescita mensile, equamente distribuito tra maschi e femmine, è stato offerto dalla componente dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (+113 mila) e degli occupati con più di 50 anni (+135 mila), che hanno compensato la riduzione dei rapporti a termine (-19 mila) e dei lavoratori autonomi (-17 mila). Queste tendenze trovano conferma anche nei raffronti con il mese di ottobre dello scorso anno nella rilevante crescita dei contratti a tempo indeterminato (+502 mila) con un significativo impatto sulla quota dei giovani under 35 (+203 mila).
In termini assoluti, il numero degli occupati nel mese di ottobre 2022 rappresenta il record nelle serie storiche dell’Istat, superiore di 9 mila unità rispetto al precedente del giugno 2019. Un dato maggiormente apprezzabile se si tiene conto della contemporanea riduzione delle forze lavoro (-402 mila), dell’aumento della quota dei lavoratori dipendenti permanenti (+337 mila) e della riduzione del numero delle persone in cerca di lavoro (-492 mila). Numeri che dimostrano l’inconsistenza delle narrazioni sulla precarizzazione del mercato del lavoro per opera di imprenditori senza scrupoli, a seguito dell’uscita dal blocco dei licenziamenti, e delle grandi dimissioni di lavoratori indisponibili a lavorare in condizioni di lavoro inaccettabili. Paventate da politici, sindacalisti, opinion leader per invocare l’introduzione di nuovi vincoli per le imprese per la gestione del personale e per l’erogazione di nuovi sostegni al reddito.
All’opposto, le tendenze registrate vanno lette specularmente anche alla luce delle crescenti difficoltà delle imprese di reperire le risorse umane coerenti con i fabbisogni professionali richiesti e dell’aumento delle buone opportunità di lavoro per i lavoratori in possesso di queste competenze. Vanno lette anche per le criticità che sono altrettanto manifeste: gli investimenti inadeguati per migliorare le competenze delle risorse umane; il tasso di occupazione che nonostante i progressi (60,5%, +1,5% rispetto al 2019) rimane distante di 8 punti rispetto alla media europea; le difficoltà di ritrovare una buona occupazione per le persone che perdono involontariamente il lavoro.
Problematiche destinate ad aumentare in modo esponenziale in relazione alla crescita degli investimenti tecnologici e alla riduzione demografica della popolazione in età di lavoro. In questo senso, può sembrare un paradosso, la riduzione dei contratti a termine deve essere interpretata come un segnale di allarme dell’incertezza degli imprenditori riguardo le scelte di espandere le attività nei prossimi mesi. Esattamente come l’aumento dei contratti a termine nel corso del 2021 doveva essere letto, come più volte suggerito nelle nostre analisi, nella prospettiva di un consolidamento futuro dell’occupazione. Purtroppo la platea degli analisti improvvisati e dei politici che li cavalcano per giustificare l’ampliamento di provvedimenti assistenziali controproducenti è molto vasta. Come abbiamo potuto constatare negli anni recenti.
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