L’invasione russa dell’Ucraina, nella notte del 24 febbraio scorso, mi ha lasciato sgomento. Non sapevo, non sapevamo come sarebbe andata. Era chiaro però che la guerra, al di là degli eufemismi del Cremlino, tornava a imporsi come un mezzo estremo della politica tra l’Atlantico e gli Urali, a dispetto di quanto ci eravamo raccontati sul grado di sviluppo della nostra civiltà e a riprova che “l’antropologia” era rimasta indietro rispetto ai principi inderogabili e alle “carte dei valori” proclamate tra il Palazzo di vetro e le Corti di Strasburgo.
Mi sono chiesto se la dottrina vestfaliana dei “nemici legittimi”, che accantonava quella della “guerra giusta”, non fosse più adatta agli “uomini che siamo” dell’aspirazione – nobile ma lontana – alla messa al bando della guerra.
Non ho risposta, ovviamente. Occidentale, cristiano, appassionato della nostra democrazia costituzionale, non ho davvero simpatie per i regimi autoritari. Benché non creda nell’esportazione della democrazia: versione armata neo-con o versione neo-lib “led from behind”. Meglio la competizione pacifica tra valori e sistemi politici. Ma forse siamo troppo innamorati dei nostri “principi” e impegnati a promuovere la rivoluzione antropologica post-binaria e trans-umana per occuparci di questioni così serie come la guerra, le sue cause e le sue soluzioni.
Noi europei occidentali, nati dopo il 1945, non abbiamo grande dimestichezza con la guerra, anche se ce la siamo trovata poco tempo fa alle porte di casa, nella ex-Jugoslavia. Abbiamo più dimestichezza con Hollywood, le serie televisive e la retorica del bianco e del nero. Ma quando scoppia una guerra bisognerebbe avere il coraggio di mettere in discussione anche quella che appare come un’evidenza indiscutibile. Nella guerra ci sono delle ragioni. E dei torti. Non c’è mai una sola ragione. E un solo torto. E se si vuole porre fine alla guerra è di questo che bisogna parlare.
Per pensare la pace, bisognerebbe avere la forza di spiegare le ragioni del conflitto e di indagarne le cause, perché soltanto così si può trovare la strada di una tregua, di una ricomposizione e di una pacificazione. Senza sconfitti. Senza vincitori. È per questa ragione che ho dato forma, per punti, al ragionamento che svolgo qui di seguito.
1. La guerra è il fallimento della politica. Soltanto il ritorno della politica può fermare la guerra. La morale e il diritto possono aiutare la politica, ma non possono sostituirla.
2. Le richieste della Russia, che hanno preceduto l’invasione dello Stato ucraino, volte a ottenere garanzie di sicurezza (neutralità) e tutele costituzionali della minoranza russa/russofona (bilinguismo) erano fondate e degne di considerazione.
3. L’approccio moralistico e normativo alla guerra favorisce l’escalation militare, l’ideologizzazione del conflitto e l’estensione dello scontro armato al di là dei confini dell’Ucraina.
4. Se c’è una parte che ha dalla sua tutte le ragioni (l’Ucraina) e un’altra parte che ha tutti i torti (la Federazione Russa) e se un approccio politico realistico viene respinto in nome dei principi (morali) e della legalità (norme del diritto internazionale), non c’è spazio per il compromesso e per la composizione: “che compromesso si può mai fare con chi ha invaso un Paese sovrano e commette crimini di guerra violando patentemente il diritto internazionale?”, ha risposto retoricamente a Jürgen Habermas una dirigente nazionale dei Verdi tedeschi (la citazione è a memoria, non letterale), respingendo la riflessione del filosofo che, nel momento in cui sulla guerra grava la spada di Damocle nucleare, ritiene pericoloso e sbagliato pensare a vittoria o sconfitta secondo schemi di tipo tradizionale.
5. Se si accetta come evidenza indiscutibile che la guerra è cominciata il 24 febbraio e che c’è un “aggressore” e un “aggredito” e che a quest’ultimo, e solo a quest’ultimo, non può che andare il nostro sostegno e la nostra simpatia – perché ha ragione e sta dalla parte del diritto –, allora noi ci precludiamo la possibilità di fare l’analisi necessaria a capire le ragioni e le cause della guerra e, con essa, anche la possibilità di trovare il sentiero della pace.
6. La guerra è cominciata in realtà il 22-23 febbraio 2014 con il colpo di Stato che ha portato al potere in Ucraina i nazionalisti del “partito occidentale”, un campo politico all’interno del quale i nazionalisti intransigenti ucraini hanno da subito e in seguito mantenuto e rafforzato un potere di veto sulle scelte politiche fondamentali dello Stato. Il 22 febbraio la “piazza” di Euro-Maidan, mobilitata con alterna intensità dal novembre 2013 a sostegno della firma dell’accordo di associazione Ucraina-Ue avversata da Yanukovich, si era rivoltata con successo contro l’accordo tra governo e opposizione, maturato tra mille ostacoli, firmato il giorno prima da Yanukovich più Jezeniuk, Klitschko e Tjahibok, e garantito dai ministri degli Esteri tedesco Steinmeier e polacco Sikorski che prevedeva nuove elezioni presidenziali nel dicembre 2014. La piazza, il giorno dopo, spinge la Rada a destituire Yanukovich (senza rispettare le norme costituzionali) e a fissare le elezioni in maggio.
7. In quel passaggio si è concluso un “patto di ferro” tra Stati Uniti e nazionalismo ucraino che hanno condiviso un programma a due facce: da un lato “de-russificazione” dell’Ucraina e dall’altro la sua “atlantizzazione”, ovvero l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Un “patto” stipulato in opposizione anche alla Ue e, in primo luogo, contro la Germania.
8. Questo programma è anti-storico, contro la realtà, e già per questo solo motivo, è un programma violento.
9. L’Ucraina, per la precisione il territorio della ex Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, è un territorio con una popolazione mista, abitato da due nazionalità maggiori (ucraina intorno al 75%, russa oltre il 20%, più minoranze magiara, rumena, tatara, etc.), molto più simile per composizione etnica e pluralità linguistica (bilinguismo) al Canada o al Belgio piuttosto che alle odierne Francia e Germania.
10. Ciò significa che soltanto un ordinamento costituzionale plurinazionale e bilingue avrebbe potuto assicurare uno sviluppo cooperativo, se non proprio armonioso, della popolazione insediata all’interno di quei confini.
11. Si è scelta la strada opposta. Già la Costituzione del 1996, attualmente in vigore, conteneva una pronunciata asimmetria nel senso di un centralismo statale di impronta nazionalista ucraina (una speciale autonomia fu riconosciuta alla sola Crimea, aggregata amministrativamente all’Ucraina nel 1954 all’interno del quadro unitario dell’Urss), riconoscibile già nel preambolo della Costituzione e nell’art. 10 della stessa. La Costituzione, si legge nel preambolo teleologico, è varata “appoggiandosi alla storia plurisecolare della creazione dell’entità statale ucraina e sul fondamento del realizzato diritto all’autodeterminazione della nazione ucraina e dell’intero popolo ucraino”. Essa traccia dunque una distinzione tra “nazione ucraina” e “intero popolo ucraino” (dove la prima è la parte privilegiata dell’intero). Stessa logica nell’art. 10 che riguarda la lingua: “La lingua ufficiale in Ucraina è la lingua ucraina. Lo Stato garantisce il pieno sviluppo e utilizzo della lingua ucraina in tutti i settori della vita pubblica sull’intero territorio dell’Ucraina. In Ucraina è garantito il libero sviluppo, l’utilizzo e la protezione della lingua russa e delle altre lingue delle minoranze nazionali dell’Ucraina”. Il russo, prima lingua di oltre un terzo della popolazione e parlata da una quota ancora maggiore di popolazione, chiaramente maggioritaria in alcuni oblast, è considerata alla stregua delle “altre lingue delle minoranze nazionali”.
12. Nella scelta della linea dello scontro, opposta a quella del compromesso e della composizione, la responsabilità dei nazionalisti ucraini (e dei loro alleati Usa) non è inferiore a quella dei nazionalisti russi (e dei loro alleati di Mosca). Anzi, semmai è maggiore, perché è da quella parte che è venuta la rottura violenta (poi rivelatasi irreversibile) dell’ordinamento legale. Quella rottura è definita “rivoluzione”.
13. Le politiche di de-russificazione seguite a Euro-Maidan sono lì a dimostrarlo: i) cancellata la legge sul bilinguismo (a certe condizioni), decisione seguita da vari contrasti; ii) legge per l’epurazione dei funzionari “filo-russi” dagli impieghi pubblici e dalla Stato; iii) restrizioni all’importazione di libri in lingua russa; iv) divieto di distribuzione e proiezione di film russi; v) restrizioni alla stampa in lingua russa e vi) restrizioni (fino all’oscuramento) delle tv russofone.
14. L’annessione russa della Crimea e la secessione dei russofoni nelle regioni di Donetsk e Luhansk, a seguito del “putsch” di Maidan, hanno aperto una fase di guerra civile nel Donbass (da allora all’invasione del 24 febbraio 2022, almeno 14mila morti) e latente nell’est e nel sud del Paese. La guerra civile è diventata cronica. Il tema della riconquista dei territori occupati ha alimentato il nazionalismo ucraino e giustificato la formazione di unità (para)militari di ispirazione ipernazionalista, che sono diventate un fattore rilevante non solo dal punto di vista militare (nel Donbass) ma anche politico a livello nazionale. Nessun negoziato ha potuto porre fine a una guerra civile diventata cronica.
15. Gli accordi di Minsk, patrocinati da Francia e Germania, tra Ucraina e Repubbliche secessioniste (Russia) sono rimasti lettera morta perché inaccettabili al massimalismo nazionalista ucraino (integrità territoriale, sovranità, indipendenza, de-russificazione e atlantizzazione) che ha condizionato in modo determinante parlamento e governo.
16. Gli Stati Uniti non si sono prodigati per il successo di Minsk: hanno anzi puntato sin da subito (dopo Maidan) sul rapporto unilaterale con il “partito filo-Nato” e, per suo tramite, sulla costruzione di apparati di sicurezza e militari ucraini alle strette dipendenze da Washington e addestrati e armati con il concorso degli alleati Nato più fedeli.
17. Questa strategia e questa alleanza si sono consolidate negli anni della presidenza Poroshenko (2014-2019), durante i quali, in un’apparente disattenzione generale, si è strutturato un budget per la sicurezza e per la difesa dello Stato (le forze armate ucraine, da quanto risulta dai dati disponibili – spese e truppe – erano prima quasi inesistenti) e si sono incoraggiate le forze nazionaliste paramilitari, poi regolarizzate-incorporate nella forze armate ufficiali, di cui è assurto a simbolo il battaglione Azov (con i suoi emblemi nazisti, le sue dichiarate ascendenze “banderiste” e le sue recenti “conversioni” nazional-kantiane), che dal 2014 presidia Mariupol.
18. L’investimento su esercito e sicurezza è stato sostenuto dagli Stati Uniti, in anni caratterizzati da una perdurante crisi economica dell’Ucraina, che ha subito una significativa riduzione del Pil, un calo demografico strutturale (più morti che nati) e un’emorragia di popolazione da migrazione, mentre nel contempo è rimasta sempre afflitta da una corruzione endemica e pervasiva di ogni ambito di attività e in ogni piega sociale.
19. Anziché ancorare nella Costituzione l’autonomia delle regioni russofone, come previsto dagli accordi di Minsk, la presidenza Poroshenko si è conclusa con l’inserimento in Costituzione della previsione dell’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea e alla Nato. Come obiettivi statali da raggiungere. La modifica costituzionale è del 7 febbraio 2019. La modifica è stata approvata dalla Rada con i voti di 334 deputati su 450 e porta il titolo “Orientamento strategico dell’Ucraina per la piena adesione all’Ue e alla Nato”.
20. La guerra civile e la crisi economica – e la corruzione sempre dilagante – hanno portato alla sconfitta elettorale di Poroshenko nella primavera del 2019. Il rigetto del “vecchio oligarca” Poroshenko ha portato alla scelta come presidente del nuovo e ignoto Zelensky, ex attore alle dipendenze di un oligarca delle Tv.
21. Il “servitore del popolo” Zelensky (Servant of the people è la sete tv che ne ha decretato il successo) rimescola in profondità un elettorato tradizionalmente diviso in pro-occidente all’ovest e pro-russo all’est e nel sud. Zelensky, forte del plebiscito presidenziale (al ballottaggio sconfigge il rivale Poroshenko circa 75 a 25) riesce a sciogliere anticipatamente il parlamento e a conquistare per il suo partito “Servire il popolo” la maggioranza assoluta dei deputati della Rada. Nessun partito ucraino prima di allora aveva mai avuto da solo la maggioranza dei 450 deputati della Rada. Prendendo voti sia a ovest che a est, Zelensky rompe una consolidata geografia del consenso elettorale. Il suo programma è vago, fa leva sul malcontento e punta molto sulla lotta alla corruzione. Secondo partito si afferma, con circa il 13% dei voti, il partito filorusso.
22. Zelensky è un’incognita e fino al febbraio 2021 non si sa quale direzione strategica intenda prendere, se pro-Nato, pro-Russia o di compromesso.
23. Alla Casa Bianca, fino alla fine del 2020, c’è Trump che non appartiene all’establishment bipartisan Usa che ha forgiato la politica di appoggio pieno al programma dei nazionalisti ucraini (de-russificazione e atlantismo) e che, anzi, subisce un impeachment per una telefonata con Zelensky durante la quale chiede al suo interlocutore chiarimenti su presunti oscuri affari del figlio di Joe Biden in Ucraina. Trump viene infatti denunciato per avere “violato” i doveri del presidente da un ufficiale americano dell’intelligence, di origine ucraina, che ascoltava la conversazione per conto degli apparati della Casa Bianca (Alexander Vindman, 44 anni, definito oggi direttore degli affari europei nel Consiglio per la sicurezza nazionale di Trump), il quale, recentemente (Corriere della Sera, 15 aprile 2022) ha dichiarato di avere così voluto danneggiare politicamente Trump in vista delle elezioni prossime e di avere anche voluto impedire una rottura del consenso bipartisan nella politica Usa di sostegno senza se e senza ma alla causa dei nazionalisti ucraini, coincidente con quella della libertà e della democrazia. (Dall’intervista a Viviana Mazza: “Denunciai quella telefonata perché temevo si stessero scatenando le condizioni per la guerra. È scoppiata per via della corruzione della presidenza Trump, dell’impeachment, dei suoi elogi a Putin”. Domanda: Perché l’impeachment? “È stato un altro segnale a Putin che l’Ucraina non godeva dell’appoggio bipartisan e l’establishment repubblicano non l’avrebbe difesa. Mi sono chiesto: e se fossi stato zitto? Probabilmente Trump avrebbe ottenuto (da Zelensky, ndr) l’indagine su Biden, il quale avrebbe corso nelle elezioni con una ‘macchia’ e forse Trump avrebbe vinto, sarebbe al secondo mandato, continuerebbe a minare la democrazia Usa, avrebbe probabilmente posto fine all’alleanza con la Nato e dato il benvenuto all’aggressione russa in Ucraina”).
24. L’arrivo di Biden alla Casa Bianca riporta chiarezza nella linea Usa verso l’Ucraina.
25. All’inizio del 2021 Zelensky è in difficoltà. Il suo partito ha perso la maggioranza assoluta alla Rada. I sondaggi danno come primo partito il partito filo-russo, che è il principale partito di opposizione alla Rada. Nel sud e nell’est del Paese soltanto un terzo della popolazione è a favore, senza incertezze, dell’integrazione occidentale; un terzo è a favore dell’integrazione con il campo russo e un terzo vagheggia una terza via.
26. Nel febbraio 2021 Zelensky rompe gli indugi e sceglie gli Usa e la causa dei nazionalisti intransigenti: comincia una repressione sistematica contro i russofili e i russofoni, a partire dall’oscuramento di alcune Tv filorusse (dell’oligarca filo-Putin Medvedchuk, ora in carcere) e nella persecuzione di membri dell’opposizione, come il deputato Kosak, accusati di terrorismo per “intelligenza” con i secessionisti del Donbass, sulla base di documenti segreti prodotti alla magistratura dai servizi di sicurezza. Il tema della repressione della “quinta colonna” sul fronte interno è un tema centrale quasi per nulla oggetto di attenzione da parte europea e occidentale.
27. Nell’estate 2021, Putin pubblica un saggio poco considerato in cui espone la sua teoria di un solo grande popolo russo, di cui gli ucraini sono una parte.
28. Non sappiamo quali siano i passaggi “coperti” dell’alleanza Biden-Zelensky, ma sappiamo delle manovre militari congiunte Nato-Ucraina nel corso dell’anno, dell’ufficializzazione delle preoccupazioni di sicurezza russa tra l’estate e il dicembre 2021, accolte e respinte con sufficienza dagli Stati Uniti e osservate da Ue e Paesi europei con la meraviglia con cui i visitatori guardano al di là del vetro i pesci negli acquari, e sappiamo dell’accordo strategico Usa-Ucraina del settembre 2021.
29. Un comunicato della Casa Bianca del 1° settembre 2021 informa che i legami Usa-Ucraina sono più stretti che mai e che “il nostro rapporto è una pietra angolare per la sicurezza, la democrazia e i diritti umani in Ucraina e nella più ampia regione. Siamo (noi Usa, ndr) impegnati nell’aiutare l’Ucraina a implementare in modo completo e approfondito le riforme necessarie per adempiere alle proprie aspirazioni europee ed euro-atlantiche. Siamo altresì uniti nel nostro impegno per la sovranità dell’Ucraina e per la sua integrità territoriale a fronte della continuata aggressione russa”. Della dichiarazione congiunta, suddivisa in cinque capitoli (I. Sicurezza e difesa; II. Democrazia, giustizia e diritti umani; III. Sicurezza energetica e clima; IV. Crescita economica e prosperità; V. Risposta alla pandemia e assistenza umanitaria), si richiama qui soltanto la considerazione iniziale che “Il successo dell’Ucraina è centrale nel battaglia globale tra le democrazie e le autocrazie” e che nell’appoggio all’Ucraina per contrastare le violazioni del diritto internazionale compiute dalla Russia e per portare quest’ultima a rispondere delle proprie responsabilità, gli Stati Uniti, nell’ambito della collaborazione per la difesa e la sicurezza, hanno fornito dal 2014 un supporto alle forze armate ucraine per 2,5 miliardi di dollari, incluso più di 400 milioni nel solo 2021. Infine, nel capitolo “democrazia e diritti umani” non manca il richiamo e il monito al rispetto dei diritti dei gruppi Lgbt+ mentre non sono mai menzionati i diritti, in primis quelli linguistici, delle minoranze nazionali, a partire da quella russa.
30. È alla luce di tutto questo che va vista l’invasione russa del 24 febbraio. Tutto ciò ci fa dire che l’evidenza dell’aggredito e dell’aggressore fa molto comodo, ma è meno evidente di quanto appaia: non fa pensare tanto all’energumeno che a freddo si scaglia contro uno smilzo avversario inerme e ignaro, ma a uno schema diverso, che assomiglia piuttosto a una ben orchestrata corrida. Come è evidente e noto, nella corrida l’aggressore è il toro e l’aggredito è il torero.
31. Se le cose stanno così, noi dobbiamo abbandonare e denunciare la retorica del bianco e del nero e dei buoni e dei cattivi, e ritornare alle cause politiche della guerra e a riconoscere le ragioni degli uni e degli altri.
32. Chi predica e pratica la de-russificazione dell’Ucraina segue un programma temerario non meno di chi pretende la sua de-ucrainizzazione: tali proposte/programmi sono comunque incompatibili con l’esistenza di un’entità statale unitaria compresa nei confini della già Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina.
33. La guerra, con le sofferenze, le distruzioni e le nuove fratture che ha provocato, sta provocando e ancora provocherà, rende oggi più lontano e meno immaginabile che mai il raggiungimento di un’intesa politica che alla vigilia dell’invasione poteva ritenersi possibile, sulla base della neutralità e di un accordo sulle minoranze russe. Secondo indiscrezioni, di cui fa fede un articolo importante del Wall Street Journal, tale accordo era praticamente già pronto.
34. Contro ogni accordo infatti si è scelta la strada dell’escalation e delle forniture di armi al governo nazionalista ucraino da parte degli Usa, della Nato, dei 40 di Ramstein e della Ue. Nonché delle sanzioni economiche e finanziarie a larghissimo spettro nei confronti della Russia e della sua leadership.
35. La retorica e l’azione di sostegno alla Resistenza ucraina ha preso il sopravvento sull’analisi onesta del più che criticabile programma nazionalista del governo ucraino, che potrà essere realizzato, se lo sarà, soltanto con mezzi autoritari, mentre ne ha idealizzato i contenuti in termini di democrazia e libertà, contro ogni evidenza precedente alla guerra.
36. La guerra degli ucraini (nazionalisti) è diventata così la guerra dei valori dell’Occidente contro l’autocrazia russa incarnata da Putin: a questa rappresentazione il presidente Zelensky, assistito dal know-how del policy-business e show-business occidentali, ha messo tutto il proprio talento mimetico e comunicativo.
37. Una guerra locale è diventata una guerra ideologica, una guerra di religione, che non può più concludersi con un compromesso, ma soltanto con la “vittoria” dell’Ucraina (e dell’Occidente, e per conto dell’Occidente). Una guerra “neo-liberale”.
38. Il negoziato è scomparso dall’orizzonte e le condizioni poste per riprenderlo sono piuttosto esigenti: ritiro dei russi dai territori occupati, restaurazione dell’integrità territoriale (con la Crimea?), della sovranità e dell’indipendenza dell’Ucraina.
39. Per ottenere questo risultato bisogna sconfiggere la Russia, sul campo o per collasso interno e conseguente rimozione di Putin.
40. Come si possa ottenere questo risultato, affidandosi ai soli ucraini nazionalisti, senza una partecipazione diretta alla guerra (che gli Usa ancora dichiarano di non volere, mentre non paiono escluderla britannici e polacchi) non è chiaro.
41. Agli Usa, d’altra parte, la guerra fa comodo: la loro strategia sembra volta a rimpicciolire la Russia e poi a smembrarla e, al contempo, a tenere al laccio l’Europa carolingia. Una scaltra operazione win-win o un azzardo ad altissimo rischio?
42. Dunque, intanto, la guerra continua, per la soddisfazione di Usa, Polonia, Gran Bretagna e governo ucraino, che hanno imposto all’Europa carolingia i loro obiettivi e le loro priorità, e continuerà fino a quando le opinioni pubbliche europee non si ribelleranno all’escalation e non esigeranno che sia posto fine al racconto manicheo di una guerra dei buoni contro i cattivi (e viceversa).
43. Soltanto a queste condizioni le parti belligeranti potranno tornare a parlarsi in un negoziato politico senza pregiudiziali che riconosca le reciproche ragioni e che inquadri e affronti il conflitto nel quadro di una ridefinizione e ricomposizione dell’architettura di sicurezza europea. Forse.
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