La guerra etnica della Russia contro l’Ucraina disvela la debolezza dell’opzione – funzionalistica e non federativa – che ha sovradeterminato la costruzione dell’Ue: tanto della sua politica estera, quanto della sua politica economica. Entrambe oscillano tra la prospettiva, storicamente gollista, di un’Europa dall’Atlantico agli Urali e quella altrettanto storicamente fondata di un’Europa profondamente atlantica, così come fu la sua originaria ispirazione politica ed economica nei decenni della guerra civile europea e mondiale seguiti all’accordo di Yalta dell’immediato secondo dopoguerra. In entrambi i casi l’Europa avrebbe dovuto trovare se stessa in una filosofia rigeneratrice del dissidio franco-tedesco e in una cultura altrettanto riparatrice del vulnus inferto alla civiltà giudaico-cristiana (che ha fondato il concetto stesso di Europa) dalla persistenza del capitalismo monopolistico di stato sovietico, poi trasformatosi in imperialismo di tipo nuovo nel secondo dopoguerra. 



La guerra della Russia contro l’Ucraina è la prova dell’ulteriore trasformazione avvenuta negli ultimi vent’anni di questo neoimperialismo post-sovietico. La mortificazione inferta dagli Usa alla Russia respingendo il disegno riformatore e rigeneratore di Gorbačëv per sostenere – invece – il capitalismo di rapina della neoborghesia compradora di Eltsin inverò il potere putiniano: esso si propose, contro la rapina eltsiniana delle risorse naturali e industriali russe, come il difensore dell’identità storica nazionale e trovò in tal modo una sorta di legittimazione per molti versi inaspettata. Avvenne il confronto con un’Ue che già scatenò, per la prepotenza tedesca, una nuova e più terribile trasformazione del potere putiniano: la Germania, ricordiamolo, riconobbe la Croazia e la Slovenia il 15 gennaio 1991, senza un accordo preventivo con le altre nazioni europee e aprì così quella stagione di sangue balcanica i cui incubi si rinnovano continuamente. 



Quell’originario errore si è ripetuto recentemente con il riconoscimento del Kosovo, a cui la Russia putiniana si oppose fortemente perché storicamente legata a Belgrado dalla comune appartenenza slavo-ortodossa. L’indipendenza del Kosovo – per la Russia – violava i principi del diritto internazionale e costituiva e costituisce anche un precedente: il Cremlino temeva e teme che i separatismi presenti nel territorio russo, primo fra tutti quello della Cecenia, potessero e possano trovare un innesco pericoloso. Uno scenario simile a quello kosovaro esiste in Georgia, dove da tempo Abkhazia e Ossezia del Sud rivendicano la loro secessione da Tbilisi contando sul sostegno moscovita. In questo contesto il potere russo si è profondamente trasformato e Putin è l’interprete di questa trasformazione: essa ha assunto il volto aggressivo, appunto, della guerra etnica che si è scatenata in Ucraina e già precedentemente in Crimea e in Cecenia.



Ebbene: la guerra calza i suoi stivali in Europa e la necessità di rispondere alla sfida russa è dinanzi a tutti noi. Ma l’Ue continua a ritenere che si possa affrontare una nuovo emergenza di guerra senza nulla mutare delle regolamentazioni che al Trattato di Maastricht sono seguite. L’energia è il punto più evidente di questa trasformazione, con il rischio di razionamenti e di interruzione delle catene di trasmissione oltre a quelle logistiche tanto della mobilità quanto della finanza algoritmica. Come si può, infatti, pensare di accelerare la creazione – sempre più inderogabile – di un esercito europeo integrato con quello della Nato senza rivedere profondamente la politica economica dell’Ue? 

Si deve andare ben oltre l’attivazione della clausola di salvaguardia generale del Patto di stabilità e crescita. Essa permette agli Stati membri di discostarsi dagli obblighi di bilancio che si applicherebbero normalmente, consentendo allo stesso tempo alla Commissione e al Consiglio di adottare le necessarie misure di coordinamento delle politiche nell’ambito del Patto. Ma se i venti di guerra apriranno, come apriranno senza dubbio, una nuova era di confronto militare per via della guerra etnica russa, il debito non potrà più essere il punto archetipale della politica economica europea e la necessità di dar vita finalmente a una vera banca centrale e non a una caricatura di essa, come è la Bce, sarà inderogabile. A meno che non si voglia sia la decadenza, sia la lotta senza quartiere di una guerra economica tra gli stati dell’Ue. 

Essa mira già oggi a favorire – inevitabilmente, per il peso della storia – i capitalismi estrattivi sia francese che tedesco. Con tutte le conseguenze del caso. Esse sono già evidenti: il caso Stellantis e il caso della tentata – e per ora non riuscita – distruzione del tessuto cooperativo e popolare bancario italiano sono lì a dimostrarlo. E non è che l’inizio…

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