Il fallimento della Silicon Valley Bank e l’immediata risposta dei regulators possono aiutare a capire alcune dinamiche del mercato finanziario USA.
Da circa 15-20 anni i pilastri legali ed economici su cui gli Stati Uniti hanno costruito il loro dominio sui mercati finanziari sono stati smantellati. L’eccesso di regulation (e la valanga devastante di Quantitative Easing a tassi zero) esploso dopo la crisi 2008-09 ha aumentato distorsioni finanziarie e paradossalmente incentivato strategie alternative ad alto rischio per migliorare i bilanci bancari. La crisi del 2007-09 era stato il segnale chiaro che il regulator americano non era in grado di comprendere, seguire e “interagire” con la velocità dello sviluppo della finanza strutturata e della sofisticazione degli operatori di Wall Street e del mondo degli Hedge Funds. Un esempio può bastare: tutti a Wall Street sapevano, almeno 3 mesi prima di quel famoso settembre 2008, che Lehman Brothers sarebbe saltata. Tutti tranne i 20mila dipendenti della FED e i 3mila della SEC (La SEC era formalmente “in charge” dei broker-dealers quali Lehman, GS, etc.). A quei tempi presso i regulators dominavano l’incompetenza e l’inefficienza del ruolo di vigilanza, oggi invece l’aumento di competenza e personale specializzato è negativamente compensato da scelte sempre più legate ad un’agenda politica, con un grado di indipendenza sempre più basso anno dopo anno.
La “over-regulation” seguita alla crisi 2007-09 ha spostato ulteriormente il pendolo del potere dal mercato al governo e ai regulators (FED, SEC, FDIC etc.) con costi enormi per il sistema finanziario e quindi per gli utilizzatori finali (aziende e privati). I vantaggi sul fronte della stabilità del sistema bancario sono stati ottenuti a caro prezzo, con distorsioni di mercato e interferenze politiche inaccettabili da molti punti di vista, considerando tutti gli stakeholders. Ancora una volta il “net winner” è il potere politico e il “potere non eletto” del regulator. I due sono spesso di comune accordo, soprattutto dove le combinazioni politiche lo facilitano: per esempio il Partito democratico in USA fa un uso spregiudicato della propria influenza sugli organi di controllo economico e finanziario, con la copertura dei media amici (da Google a Bloomberg).
La Silicon Valley Bank è una istituzione con un’ottima reputazione nel campo del supporto alle aziende del settore tecnologico e alla facilitazione della raccolta di capitale. Che cosa ha di speciale? Conosce il mondo del Venture Capital e i suoi players principali ed è riuscita a dialogare sia con imprenditori tech che con i giganti del VC, primi tra tutti Sequoia Capital e Andreessen Horowitz. Le grandi banche non hanno appetito per interagire con realtà molto peculiari e spesso troppo piccole, mentre le banche minori e quelle regionali non hanno le competenze necessarie per fare business nel mondo VC. Questa nicchia è dominata da SVB e da investitori istituzionali e boutiques di investment banking. Questa vocazione e know-how nei servizi ad aziende particolarissime quali startups nel settore tech e a “serial entrepreneurs” che necessitano per esempio di gestire complessi aumenti di capitale, di bridge financing per sviluppare altre iniziative, è forse alla base della sua fine, perché il management ha sottovalutato i principi cardine dell’attività bancaria: gestire scadenze di attivo e passivo e trasformare rischi. Può far sorridere il fatto che il CFO della SVB sia lo stesso di Lehman Brothers nel 2008…
È non meno importante il fatto che si parli apertamente adesso, troppo tardi, di un team di risk management totalmente inadeguato che ha gestito il delicato equilibrio attivo-passivo (AML, Asset-Liabilities management) in modo amatoriale. Ovviamente la SVB impersonava un role model sul fronte dei criteri ESG e quasi tutti i fondi del settore, scopriamo giorno dopo giorno, ne erano orgogliosi azionisti. In fondo… è meglio finanziare Snapchat che Exxon, giusto?
La FED ha deciso di intervenire, ex post, per limitare il danno potenzialmente enorme alle aziende tech che hanno la tesoreria presso la SVB e che gestivano tutte le operazioni corporate attraverso quella banca. Chiaramente si tratta anche di un aiuto clamoroso, senza precedenti, ai ricchi clienti privati che usavano la SVB per accedere alle operazioni più interessanti di VC.
La portata dell’operazione e la sua applicabilità ad altri istituti a rischio di corsa agli sportelli è sicuramente importante, sia per impatto economico che di messaggio agli investitori e clienti di banche minori. Il motto è stato: “with no additional costs to the taxpayers”. Ed è proprio qui il punto che passa inosservato: non si tratta di un vero e proprio bailout, siamo d’accordo, gli investitori azionari vengono “azzerati” e i bondholders non verranno rimborsati pienamente. Qui si tratta di una istituzione strategica che avrebbe meritato comunque un supporto diretto, ma la protezione dei correntisti corporate e privati si configura di fatto come un favore agli “amici californiani” che tanto sono stati e tanto saranno generosi con le donazioni per la prossima campagna presidenziale. I 20mila dipendenti della FED avrebbero potuto rendersi conto prima di come una banca da 200+ billions di bilancio stava gestendo il proprio attivo. Dal momento che la banca è californiana e quasi tutti quelli che contano in quello Stato sono coinvolti con il business della Silicon Valley (e della sua banca di riferimento), è ragionevole immaginare che ancora una volta qualche fattore non puramente economico abbia influenzato sia la decisione di non intervenire con un’ispezione della FED qualche mese fa, sia di salvare senza limiti i correntisti come mai era successo nella storia americana. Diciamo che è una operazione “a buon rendere” anche per salvare la faccia dei vari Newson (governatore della California), Nancy Pelosi, Kamala Harris etc. e il circolo dei loro potenti amici investitori e imprenditori tech, “donors” principali del Partito democratico.
Queste situazioni hanno sempre dei costi per il sistema nonostante gli organi di partito quali Bloomberg e New York Times sostengano senza alcun pudore il contrario. Chi ha buona memoria ricorda che il dot-com boom e bust del 2000-2002 ha innescato una grave recessione e anche in quel caso l’epicentro del sisma era la California.
Oggi la prospettiva è diversa, bisogna dirlo: la FED si trova costretta ad intervenire per evitare un altro dot-com bust (non c’è assolutamente un rischio bancario sistemico legato alla SVB), e dovrà rimodulare le proprie misure di attacco all’inflazione. Poi è arrivata anche la crisi del Credit Suisse…
Sembra quasi che improvvisamente ci siano tante buone ragioni per rallentare il rialzo dei tassi e addolcire la lotta all’inflazione; sfortunate coincidenze per salvare ancora una volta un sistema finanziario e politico malato, costruito sul debito pubblico fuori controllo, su interventi economici di natura profondamente clientelare e sul Quantitative Easing. Se la Cina smette di fornire “deflation o disinflation” al sistema economico occidentale, come sta succedendo ora, le banche centrali dovranno tornare ad occuparsi di inflazione e occupazione invece di finanziare i governi amici e salvare tutte le forme di moral hazard nel sistema. Good luck.
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