Tempi duri per la libertà di espressione. Si moltiplicano i tentativi di limitarla e gli episodi di censura sono diventati talmente “normali” da non fare quasi più notizia, o comunque non suscitano reazioni indignate. Passo dopo passo, nel nostro mondo occidentale, patria dei diritti di libertà e della democrazia, la stretta è evidente. Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 al Digital Services Act (DSA), da poco approvato dall’Unione Europea, si può ben vedere la cesura che separa le due epoche storiche.



Dopo le due guerre mondiali del secolo scorso, la Dichiarazione adottata dall’ONU nel 1948 sancisce che “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere” (Articolo 19). Basterebbe questo e poi confrontare con la situazione che stiamo vivendo. Con la motivazione della guerra in Ucraina, le frontiere della libera informazione sono state chiuse con certi Paesi. Con la motivazione della “disinformazione” chiunque ormai si è imbattuto in qualche esperienza di censura solo per aver espresso una opinione personale, né violenta, né di odio o di istigazione, ma solo ritenuta “scorretta, falsa o fuorviante” da qualche factchecker o verificatore di fatti (indipendente?), una specie di moderno guardiano del pensiero unico politicamente corretto con potere di bannare chi non si conforma, cioè di escluderlo dalla sua rete di relazioni social, punizione che oggi appare quasi una forma tecnologica del carcere o del confino del secolo scorso.



Che il DSA, in vigore dallo scorso agosto, costituisca una “stretta online sui contenuti dannosi in Europa” lo annunciano le fonti ufficiali (Euronews). L’obiettivo dichiarato è di rendere la navigazione “più sicura per gli utenti”, combattendo la diffusione di contenuti illegali, discorsi di odio e disinformazione online attraverso controlli mirati. Ma come le fake news possano essere effettivamente dannose, per chi e stabilito da chi, è pericolosamente molto sfumato. Di certo i vertici della Ue sembrano ossessionati dalla diffusione di informazioni non veritiere nel contesto delle campagne elettorali e, guarda caso, le “autorità indipendenti” preposte alla verifica verranno designate a febbraio 2024 (e le elezioni saranno a giugno).



Fino a non tantissimi anni fa c’era un solo modo per combattere una informazione non vera: dimostrarlo attraverso un confronto dialettico, argomentando sulla base di fonti certe e documentabili. Adesso il popolo è considerato talmente immaturo che va protetto dall’esposizione a notizie fake censurandole a priori. Ci rendiamo conto dell’involuzione abissale in cui siamo finiti rileggendo quello che scriveva Kant nel 1794, agli albori dell’illuminismo, considerata l’era dell’emancipazione dell’uomo dallo stato di “minorità” e di generale “rischiaramento”: “Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. Nel 2023 ci hanno spinto di nuovo in questa condizione.

Ma come si è arrivati a questo punto? La diffusione di internet e specialmente dei social ha fatto sì che gli organismi europei si occupassero a più riprese di fenomeni detti di hate speech, termine che si riferisce a tutte le forme di incitamento o giustificazione dell’odio razziale, xenofobia, antisemitismo, discriminazione verso minoranze e immigrati, sorrette da etnocentrismo o nazionalismo aggressivo. In Italia fin dal 1993 la legge Mancino reprime l’incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Nel 2014 è stata lanciata la campagna nazionale “No hatespeech”, con la messa in onda di spot televisivi e radiofonici nell’ambito dell’omonimo progetto internazionale, promosso dal Consiglio d’Europa. Nel 2019, il Senato ha istituito la Commissione presieduta dalla senatrice Segre con compiti di studio e di proposta sui fenomeni di intolleranza, istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di etnia, religione, provenienza, orientamento sessuale, o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche.

Si è osservato che la discriminazione e l’odio verso il diverso proliferano in contesti in cui la qualità dell’informazione è bassa. Pertanto, da un lato sono stati avviati progetti di sensibilizzazione nelle scuole, come sul cyberbullismo, ma a livello Ue si è deciso di puntare soprattutto sull’affidabilità delle notizie che circolano in rete e sulla lotta alla “disinformazione”. Fino ad arrivare al DSA, le cui conseguenze sulla libertà di espressione saranno da valutare, ma le premesse portano in un’unica direzione di censura. Negli ultimi tre anni, la pandemia e la diffusione dell’ideologia woke hanno determinato la brusca virata nella direzione del pensiero unico. Gli episodi di censura sono ormai all’ordine del giorno e hanno preso di mira anche moltissimi scrittori o artisti: o ci si “conforma” o si viene “tagliati fuori”, perdendo ogni visibilità e magari anche il lavoro.

L’ultimo è il caso di Moni Ovadia, artista di origine ebraica, direttore del teatro comunale di Ferrara, finito nel mirino in particolare di FdI, con richiesta di dimissioni dalla carica che ricopre, per aver espresso la sua opinione personale sulla guerra Israele-Palestina. “La morte anche di una sola persona – ha detto – sia essa israeliana o palestinese, è sempre una tragedia e va condannata con tutte le forze”. Al tempo stesso però, ha criticato il governo Netanyahu sostenendo che “Israele lascia marcire le cose, fingendo che il problema palestinese non esiste, per cancellare la stessa idea che i palestinesi esistano”. Non sappiamo al momento come sia finita la vicenda delle dimissioni, ma condividiamo l’amarezza con cui lo stesso Ovadia ha commentato il fuoco di polemiche che lo hanno colpito: “Mi aspettavo che qualcuno delle istituzioni dicesse: posso non essere d’accordo con te, ma hai il diritto di esprimere le tue opinioni”.

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