L’ultima sorpresa della giornata è il ritiro della mozione di sfiducia leghista a Giuseppe Conte. Il “casus belli” che ha aperto la crisi non c’è più, ma ormai i contendenti si sono randellati talmente forte nell’aula del Senato che non c’è più bisogno di una sfiducia parlamentare. La marcia indietro si spiega con la volontà di Matteo Salvini di togliere ogni ulteriore pretesto ad attacchi dei 5 Stelle. Una settimana fa aveva proposto di votare assieme il taglio dei parlamentari (nella riforma costituzionale) e poi andare a votare. Luigi Di Maio aveva replicato che prima la Lega avrebbe dovuto ritirare la sfiducia. Ieri Salvini al Senato ha teso di nuovo la mano, arrivando ad affermare che sarebbe passato sopra gli attacchi personali pur di proseguire l’esperienza del governo del cambiamento. Poi è stata ritirata la mozione: così ha un argomento per dire che questa pazza crisi ferragostana non è tutta colpa sua.
L’altro pezzo forte dell’autodifesa salviniana è l’insistenza sul sospetto che il dialogo tra M5s e Pd fosse aperto da mesi. Finora il leader leghista non si era mai espresso in termini così perentori: addirittura il passaggio parlamentare non sarebbe stato causato dai contrasti interni, ma per portare alla luce queste trame misteriose. L’ipotesi sembra azzardata, tuttavia ieri i segnali di fumo incrociati tra Pd e M5s sono stati numerosi, dall’elenco delle cose ancora da fare proposto da Conte (dall’economia circolare alla scuola all’inclusione sociale) che sembra ricalcato da un depliant del Pd, fino alle aperture di Matteo Renzi e Nicola Zingaretti, disponibile a dialogare se Conte e i 5 Stelle facessero pubblica ammenda di una serie di errori.
Se un dialogo era già intavolato, lo si vedrà presto. Il presidente Mattarella ha imposto tempi rapidissimi alle consultazioni, appena un giorno e mezzo per sentire i gruppi parlamentari. Il Quirinale non intende perdere altro tempo se dovesse essere costretto a sciogliere le Camere e indire le elezioni, ma soprattutto vuole che M5s e Pd scoprano le carte subito: se hanno davvero intenzione di formare un governo lo si deve capire entro 48 ore. Due giorni contro i tre mesi per arrivare al contratto del 2018: a quel punto i sospetti di Salvini potrebbero mostrare qualche fondamento.
Le basi programmatiche sono state elencate da Conte, nella speranza di succedere a sé stesso. Il premier però si è ben guardato dall’inserire nel contratto-bis i temi della giustizia, delle grandi opere pubbliche, del lavoro e delle tasse. Un futuro esecutivo giallorosso sarà fondato sulle rinunce e sui sacrifici che ognuno dei contraenti dovrà fare. La discontinuità invocata da Zingaretti comporterà cambiamenti nella stessa compagine governativa, a partire dal premier (il presidente della Camera Fico è il principale candidato) per finire con lo stesso Di Maio. Ma c’è un’ulteriore incognita: il peso di Renzi. L’accordo formalmente sarebbe sottoscritto da Di Maio e Zingaretti, ma chi decide tutto sarebbe l’ex premier.
I tempi contingentati del Quirinale mettono i primi paletti chiari a questa crisi ancora così confusa. Non ci sarà spazio per i traccheggiamenti e per i tatticismi della primavera 2018, ma nemmeno per chi spera in un governo istituzionale pilotato dal Colle. O i partiti traducono rapidamente i segnali di fumo in fatti concreti o si vota.