Nel rapporto di lavoro, qualunque forma questo assuma, è sempre consentito recedere, sia da parte del datore di lavoro che da parte del lavoratore, per giusta causa, ossia – come recita l’art. 2119 c.c. – quando si verifica un fatto che «non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto».
Si tratta di una c.d. clausola generale, ossia di una tecnica redazionale che il legislatore spesso adotta quando deve definire concetti il cui significato può modificarsi nel tempo o che devono essere di volta in volta adattati alle circostanze del caso concreto. In altri termini, la giusta causa è una formula aperta, sotto l’ombrello protettivo della quale possono rientrare diversi eventi; ed è compito dell’interprete di volta in volta (mi scuserà il lettore per la ripetizione lessicalmente poco corretta, ma che impiego perché si fissi nella sua mente la necessità di procedere caso per caso) valutare se il fatto non consente la prosecuzione, anche temporanea, del rapporto, perché è venuta meno la fiducia tra le parti, minando alla radice il rapporto personale tra di esse.
Limitandoci alle dimissioni del lavoratore per giusta causa, la giurisprudenza ha individuato quali ipotesi di giusta causa la commissione di reati a danno del lavoratore, o l’aver subito molestie sessuali o comportamenti vessatori, il mancato o ritardato pagamento di un certo importo di retribuzioni o di contributi di previdenza e assistenza, la mancata e persistente predisposizione di misure di sicurezza che possano pregiudicare la salute del lavoratore, l’adibizione a mansioni inferiori reiterata nel tempo, ecc.
La conseguenza di tali fatti è che il lavoratore può interrompere il rapporto di lavoro immediatamente, senza osservare alcun termine di preavviso; e anzi il datore è tenuto a corrispondergli l’indennità di mancato preavviso.
Infine, le dimissioni per giusta causa abilitano il lavoratore a percepire la Naspi, visto che il suo stato di disoccupazione – solo apparentemente “volontario” – si è reso necessario per comportamenti del datore tanto intollerabili da averlo costretto a recedere dal rapporto.
Dopo aver visto cosa dice la legge, vediamo arriviamo ora a quel che dicono gli enti pubblici.
L’occasione, che consente di valutare quale sia il normale modus operandi di taluni funzionari pubblici, è fornita da una sentenza del tribunale di Milano del 24 giugno scorso.
Tale pronuncia riguarda il caso di un lavoratore, al quale a seguito di una riorganizzazione aziendale erano state affidate mansioni superiori a quelle contrattuali; il lavoratore aveva dunque preteso di essere inquadrato nella qualifica superiore a lui spettante, senza avere alcun riscontro da parte della società; pertanto, si era dimesso per giusta causa.
A seguito delle sue dimissioni, aveva fatto richiesta all’Inps di poter godere della Naspi, che gli era stata negata perché, a giudizio dell’Istituto, non si trattava di dimissioni per giusta causa. E in effetti, se si consulta il sito dell’Inps, questo rimanda, tra le altre, a una circolare amministrativa (la n. 163 del 2003) che cita quali ipotesi di dimissioni per giusta causa alcuni fatti (tra gli altri, mancato pagamento della retribuzione; aver subito molestie sessuali; modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative; mobbing; ecc.), tra i quali non compaiono quello lamentato dal lavoratore istante.
Il tribunale di Milano ha ovviamente accolto le doglianze del lavoratore, avendo premura di far notare che la nozione di dimissioni per giusta causa, “le quali danno luogo a uno stato di disoccupazione involontaria, non costituiscono una categoria tassativa bensì flessibile ed aperta a fattispecie atipiche”.
Quello dei funzionari è un procedimento argomentativo abbastanza noto agli operatori del settore: la prassi amministrativa (la circolare, la nota ministeriale, l’interpello, o qualunque forma essa assuma), che pure sarebbe vincolante per i soli dipendenti dell’ente che l’ha emessa, viene considerata fonte di diritto superiore alla legge (e anche all’ordinaria logica comune!).
Capita talvolta nelle aule di tribunale di vedere che i funzionari degli enti ribattano ad argomenti giuridici basati sulla lettura delle norme con circolari e interpelli, che forse nel loro intendimento sono fonti di rango superiore alla legge. Anche a chi scrive è successo di dover assistere una lavoratrice, dimessasi perché impiegata parzialmente in nero e ampiamente sottopagata (aveva un contratto a tempo parziale quando in verità lavorava ben oltre il normale orario di lavoro), che ha visto inizialmente rifiutarsi dall’Inps l’indennità di disoccupazione perché il suo caso non rientrava tra quelli contemplati nelle circolari dell’ente. In verità, in questo caso, l’impasse fu superata dalla saggia posizione del funzionario, che a seguito di un dialogo ammise la lavoratrice al beneficio, condizionandolo alla produzione di documenti che provassero l’intollerabilità della situazione lavorativa da cui era stata costretta ad allontanarsi.
Se si guarda ai verbali ispettivi degli enti si noterà che il modus operandi è quasi sempre quello di attenersi a quel che le circolari o le istruzioni ricevute dettano, con poco riguardo a quello che invece la legge o la ragionevolezza impongono.
Quello di dismettere la responsabilità (e il gusto) di interpretare è un rischio cui qualunque operatore del diritto (e anzi tout court qualunque persona che lavori) è esposto; mi sembra che la questione sia quella della mancanza di un’educazione giuridica, cui le aule universitarie e l’esercizio della professione pure dovrebbero allenarci.
Lessi qualche anno fa che l’interpretazione della legge è attività riservata ai magistrati; niente di più falso! Anche l’automobilista che vede un cartello stradale e adegua la sua guida di conseguenza sta interpretando. Si tratta di educarci a essere responsabili interpreti, di prenderci il gusto di interpretare liberamente e in responsabilità quello che le norme impongono.
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